1246_LA BALLATA DI BUSTER SCRUGGS (The Ballad of Buster Scruggs). Stati Uniti 2018. Regia di Joel e Ethan Coen.
Otto anni dopo Il Grinta, Joel ed Ethan Coen tornano a visitare i percorsi del western con un film che, se è possibile, è ancora più metalinguistico del loro cinema abituale. Con oltre trent’anni di carriera e una quindicina abbondante di pellicole, la poetica dei fratelli di Minneapolis è chiara e La Ballata di Buster Scruggs, per quanto possa aver avuto una gestazione non proprio lineare, risponde chiaramente alle aspettative. Che sono quelle di spiazzare puntualmente lo spettatore, sia chiaro, che il cinema dei fratelli Coen è tutto tranne che prevedibile. In ogni caso, il progetto nasce come serie televisiva per Netflix e solo in seguito diviene un film ad episodi, tuttavia il lavoro è svolto con la solita estrema cura formale per cui la cosa è solo una mera curiosità che, se non fosse stata resa nota, nessuno avrebbe potuto intuire. Anche perché i sei segmenti che compongono La Ballata di Buster Scruggs, oltre essere totalmente eterogenei e diversi per temi e sviluppo – ma questo potrebbe essere anche plausibile in una serie un po’ anticonvenzionale – hanno durata diversa. Per la verità quattro di essi potrebbero facilmente venir ricondotti ad una lunghezza simile tra loro, anche se la ventina di minuti sembra troppo breve per poter essere episodi televisivi; uno poi è decisamente più corto e un altro decisamente più lungo. Insomma, l’idea dei Coen sembra quella di approfittare della struttura del film ad episodi per avere una variante in più, la durata, per sorprendere lo spettatore. Ma questo non deve far credere che il lavoro dei due registi sia stato poi meno rigoroso, in quanto le geometrie narrative sono presenti ancora, nella costruzione dei vari racconti, per capirsi si veda la ripetizione rovesciata (‘devo contare?’ chiesto prima dal villain di turno e poi dal protagonista) del duello che vede in seconda istanza il pistolero bianco, in precedenza vincente, ora soccombere di fronte al suo contrario, il pistolero nero; del resto lo specchio è uno degli elementi presenti sulla scena. Il pistolero bianco in questione è Buster Scruggs (Tim Blake Nelson), personaggio al quale è intitolato il film ma che non è certo il più importante e nemmeno il protagonista dell’episodio più importante, semplicemente di quello che apre il lungometraggio.
Che ha per titolo lo stesso del film, La Ballata di Buster Scruggs, e introduce un character degno dei primissimi western, quelli con Tom Mix, di cui lo stesso Buster potrebbe essere la versione canterina – a là Johnny Guitar per capirci. Peraltro in apertura di capitolo vediamo anche uno scorcio sulla Monument Valley, palese riferimento ai classici fordiani. L’arrivo nella prima locanda, situata in un luogo totalmente improbabile anche per il Far West, ci trasporta in western della fase crepuscolare del genere, ad esempio uno spaghetti della corrente italiana. E’ evidente l’intento di mescolare i vari filoni che, durante i decenni, hanno caratterizzato il western, e i Coen riescono, grazie alla magia della loro narrativa, a rendere plausibile tutto il pastiche. Il secondo capitolo, Vicino ad Algodones è il più breve e non perde tempo a strappare già un mezzo sorriso, che anticipa il tenore del racconto, quando in principio vediamo il cowboy protagonista (James Franco) – in realtà un rapinatore – guardare la banca suo obiettivo. Un tipico sgangherato edificio del far west piazzato in mezzo al nulla di una prateria desertica: che diavolo ci può fare una banca in quel posto solo i Coen possono saperlo.
Ma La Ballata di Buster Scruggs è un film che si diverte con gli stereotipi del genere enfatizzandoli in maniera volutamente più smaccata che concreta perché di assurdità e cliché strampalati il genere in effetti è pieno già di suo. La bravura dei fratelli registi è che, nonostante le forzature, i racconti non perdono mai la peculiare credibilità narrativa così che lo spettatore se li possa bere senza alcun problema. Il secondo segmento filmico è un capolavoro di sintesi, con l’acido umorismo nero a far da efficiente lubrificante narrativo. In poco più di dieci minuti abbiamo una rapina, un processo sommario – molto sommario, tanto che avviene quando il rapinatore è svenuto e noi ne apprendiamo solo il risultato – il salvataggio da un’impiccagione, l’attacco degli indiani, un ladro di bestiame al lavoro, una nuova cattura, un’impiccagione pubblica. L’ironia sancisce anche il risultato finale: il rapinatore avrebbe dovuto essere impiccato per rapina ma si salva unicamente per finire impiccato come ladro di bestiame. Come dire che tutto il trambusto della vicenda è svincolato dal significato della stessa – considerato che il rapinatore finisce come doveva finire – interpretando in modo perfetto il senso del cinema dei fratelli Coen dove l’accento è sempre posto sul come almeno nella stessa misura che sul perché delle loro storie.
La pagnotta è incentrato su un carrozzone d’artista ambulante, un cliché meno frequente ma comunque presente nell’immaginario western. Protagonisti sono l’impresario (Liam Neeson) e l’artista (Harry Melling) con quest’ultimo che, senza braccia e senza gambe, richiama inevitabilmente Freaks, capolavoro del 1932 di Tod Browning ambientato nel mondo circense. Nonostante i primi due episodi si siano chiusi già con i rispettivi protagonisti finiti al Creatore, questo capitolo – che peraltro non si discosta in questo senso – segna un cambio di passo nell’umore della pellicola, che si fa decisamente più cupo. Certo, l’ironia, la decisione da parte dell’impresario di sostituire il suo artista con un pollo capace – non si saprà come – di fare i conti matematici, è evidente.
Ciononostante, la scelta di non filmare la scena in cui l’impresario getta nel fondo di un canyon percorso da un fiume il suo artista, è emblematica del fatto che, seppure di scherzo narrativo si tratti, i Coen lo intendono in chiave più seria che farsesca. E’ questo passaggio che cristallizza, secondo i Coen, la vera anima del Sogno Americano: finché dura puoi stare al centro del palco ma quando è scaduto il tuo tempo, finisci in fondo ad un fiume. A ben vedere il senso è simile anche per il primo episodio ma in quel caso si sottolineava la deriva concorrenziale dello spirito americano, con la gara infinita ad essere il migliore che pietà non ha per chi non ce la fa. Il secondo capitolo era invece un breve esempio di come funzionano le regole, in quella strenua competizione che è l’America: la mannaia della Legge cala tanto inesorabile quanto approssimativa, perché nemmeno la Giustizia ha tempo da perdere da quelle parti. In sostanza, il primo capitolo verteva sui protagonisti della contesa, il secondo sul senso dell’arbitraggio, mentre nel terzo l’elemento cruciale è l’impresario, ovvero colui che tira la fila. Il tenore non può che farsi progressivamente più plumbeo: la fine del protagonista nel capitolo iniziale è solo la conseguenza della (crudele) disputa, nel secondo dell’applicazione (sommaria) delle regole, ma nel terzo il nostro è fatto fuori per banale scelta utilitaristica di chi investe. Il Sogno Americano, di cui il western è il canto epico, potrebbe anche aver finito il suo corso. Il successivo capitolo, Il canyon tutto d’oro, si occupa dell’ambiente circostante.
Del resto il tema ecologico è da sempre connaturato con il genere western: le difficoltà dei coloni che devono piegare ai loro fini le molteplici insidie del selvaggio west e, ancora più nello specifico, lo scontro Civiltà – i bianchi – contro Natura – i nativi, hanno sempre messo in chiara evidenza che la conquista è stata fatta non solo a dispetto dei vecchi abitanti dell’ovest americano ma soprattutto a danno dell’ambiente stesso. La figura che meglio di ogni altra rappresenta colui che sfregia la natura è il cercatore d’oro, nell’episodio in questione interpretato dal mitico Tom Waits. Il cercatore è tratteggiato con una certa simpatia dai Coen che, forse non a caso, lo risparmiano e lo premiano addirittura con la scoperta del filone aurifero. Inoltre, nel racconto specifico, la natura, che si ritira di buon ordine appena appare l’uomo bianco sulla scena, può riprendersi il suo spazio in chiusura, quando il cercatore lascia la vallata. Il canyon tutto d’oro può quindi essere considerato un racconto ottimista, e forse serve a preparare il terreno per il pezzo forte del lungometraggio ma, tutto sommato, le considerazioni che se ne devono inevitabilmente trarre sono sconfortanti. Il cercatore arriva in una vallata che sembra il Paradiso Terrestre ma l’unica cosa che vi scorge è la possibilità di una vena aurifera. L’uomo bianco è quindi totalmente indifferente al valore della Natura, dell’ambiente che lo circonda, se non in funzione della possibilità di arricchirsi in termini economici. In effetti, per anni, e forse ancora oggi, i nostri maestri e professori ci hanno insegnato che tutto dipende dall’economia, che è la vera forza motrice della nostra società. Gli Stati Uniti d’America, probabilmente, sono il risultato supremo di questa concezione filosofica della Storia e del mondo. In parte anche in buona fede: si veda lo sguardo benevolo dei Coen sul cercatore d’oro; peraltro non condiviso, in nessun modo, dagli animali della vallata.
La giovane che si spaventò introduce il tema sentimentale; l’episodio è il più corposo, quasi quaranta minuti, e la vicenda della carovana dei coloni ha quindi uno sviluppo maggiore definendo meglio i suoi personaggi. La protagonista è Alice (Zoe Kazan) una ragazza nubile che affronta il viaggio in carovana verso l’Oregon col fratello. Il quale muore di colera quasi subito, lasciando la giovane nei pasticci. Il primo dei quali dimostra subito che la carovana sta portando verso ovest la civiltà con i suoi aspetti più assurdi e gratuiti. In un oceano d’erba, con spazi sterminati, sembra proprio che l’abbaiare di President Pierce, il cagnolino di Alice, sia un problema insormontabile. Uno dei due capo-carovana, Billy Knapp (Bill Heck) si incarica di risolverlo e da questo primo approccio con Alice nasce un’intesa che porterà ad una proposta di matrimonio che viene formulata con garbo e rispetto, considerando i vantaggi da una e dall’altra parte ma senza mai tirare in ballo la fatidica parola amore. La ragazza si dirà incline ad accettare, a sottolineare il tono formale e burocratico dell’accordo: anche in campo sentimentale il Sogno Americano è ben poco onirico e assai concreto, un contratto con tutti i dettagli pianificati. E questa è la regola, nel west; ad ogni evenienza, una risposta. La classica efficienza americana. Peccato che se capita di equivocare o di essere troppo precipitosi, le cose possano andare comunque a ramengo, come occorre purtroppo alla povera ragazza, in uno dei passaggi più pirotecnici dell’intero film.
L’ultimo capitolo, Le spoglie mortali, rievoca Ombre Rosse (1939, regia di John Ford) e la diligenza, inserendo anche le figure del trapper (Chelcie Ross), dei cacciatori di taglie (Junjo O’Neil e Brendan Gleeson), del gambler (Saul Rubinek) e della dama dell’esercito della salvezza o simili (Tyne Daly). Cominciato nella luce gialla del tramonto, d’altronde nel capitolo precedente era appena tramontata una storia d’amore, l’episodio si tinge progressivamente di scuro, finendo in un tono visivamente cupissimo. I dialoghi sono spassosi e al limite del surreale con il trapper logorroico che discute animatamente con il gambler francese e l’altezzosa signora. Dal canto loro i bounty killer, sembrano incarnare la figura stessa dei Coen: ti incantano con le parole e, mentre sei distratto, mettono a segno il punto. La rivelazione, che rende prezioso tutto quanto La Ballata di Buster Scruggs, è che i registi non si reputano affatto in una condizione di conoscenza superiore in quanto essi stessi sono sostanzialmente semplici spettatori, come esplicitamente detto da uno dei due cacciatori di taglie. Il senso, il famigerato messaggio che è sempre stato ricercato da critici e dagli spettatori più illuminati in ogni film, i Coen ammettono di non conoscerlo loro stessi. E il western, in tutto questo come ne esce? E’ ancora vivo o, come si dice da anni, è ormai morto e sepolto? A giudicare dallo stato del prodotto dei due bounty killer, che viaggia avvolto in un telo sopra il tetto della diligenza, si potrebbe anche considerare morto stecchito. Ma finché c’è in giro gente abile come i Coen, si può star certi che sapranno trasformarlo in qualcosa di valore, proprio come La Ballata di Buster Scruggs. Per mietitori come loro, se mettano mano su qualcosa di vivo o morto non fa distinzione, riescono sempre a cavarci fuori qualcosa. E non da poco.
Zoe Kazan
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