1235_SIGNUM LAUDIS. Cecoslovacchia, 1980. Regia di Martin Hollý.
Nella calda luce del tramonto, le prime immagini di Signum Laudis, capolavoro di Martin Hollý, mostrano classiche scene dalla terra di nessuno durante la Prima Guerra Mondiale. Una mitragliatrice sta impietosamente falciando un reparto in ritirata, i soldati cadono come mosche finendo intrappolati nel filo spinato. La fotografia virata al giallo sembra quasi un bianco e nero seppiato, il che sembrerebbe ammantare di una forma quasi nostalgica quei tragici eventi. Una tromba risuona mentre l’uso del rallenty aumenta l’effetto evocativo della sequenza: poi, d’improvviso, un frammento in negativo della pellicola, e poi altri ancora. Questi piccoli inserti che irrompono nel lungometraggio e rovinano la confezione della sequenza altrimenti quasi sofisticata, sono la prima chiave di lettura che ci fornisce Hollý: attenzione, vi mostro un film di guerra con tutti i crismi, ma alla fine vedrete proprio quello che c’è davvero all’origine. Allo stesso modo in cui il negativo in fotografia è abitualmente il materiale grezzo, puro e originale, da cui si ricava poi l’immagine a colori. La marcetta che apre i titoli di testa, e che tornerà più volte nella colonna sonora del notevole Zdeněk Liška, autore delle musiche, è un altro elemento discordante con la drammaticità della storia raccontata dal film. Sembra il tema musicale adatto ad una farsa ma il tenore della pellicola è tutt’altro: eppure, grazie al sontuoso racconto del lungometraggio, nonostante non vi sia alcun passaggio umoristico o ironico, sarà proprio quello farsesco il risultato ottenuto da Hollý per il più intimo umore del suo film. Ma, all’apparenza, Signum Laudis è un signor film di guerra.
Fronte orientale, Prima Guerra Mondiale; l’esercito austroungarico è alle corde, i russi martellano senza pietà e gli alleati tedeschi mettono a loro volta pressione. Viene quindi designato capo di stato maggiore austriaco il generale Berger (Ilja Prachar), la cui moglie è figlia del capo di stato maggiore tedesco, anziché il generale Gross (Radovan Lukavský), forse più meritevole ma senza appoggi politici. Tuttavia entrambi i generali, unitamente al loro quartier generale di alti ufficiali, si recano al fronte per cercare di mettere un freno alle continue diserzioni che affliggono l’esercito imperiale. Qui li riceve il colonnello Ziegler (Ladislav Frej) di cui Berger già aveva una pessima opinione: il capo di stato maggiore incolpa subito il suo sottoposto di non essere stato in grado di mantenere il morale alto nelle truppe e la disciplina necessaria. Secondo il generale, la strategia per migliorare l’umore di un esercito in grave difficoltà era certamente quella di strigliare gli elementi che davano qualche segno di debolezza (o forse potremmo dire umana ragionevolezza), ma lo stato maggiore non intendeva usare solo il bastone. Era stato infatti messo in preventivo uno strumentale uso della carota. E la carota in questione era proprio il Signum Laudis (da cui il titolo del film), ovvero la maggior onorificenza militare dell’impero austroungarico. Proprio nell’ottica di essere un’operazione pianificata a prescindere, finalizzata cioè ad uno scopo altro rispetto al premio al merito in sé stesso, a venire insignito della medaglia sarà un caporale, fatto davvero insolito essendo in genere un titolo spettante ai soli ufficiali.
Ma il caporale Hoferik (Vlado Müller), protagonista del film, è davvero un tipo speciale: assurto a comandante del proprio reparto, essendo caduti tutti i suoi diretti superiori, è una vera macchina da guerra. Spietato con la truppa, che sprona continuamente ad eseguire gli ordini anche quando sembrano azioni suicide, Hoferik aveva realizzato l’ultima impresa richiesta pur con un grave tributo di sangue di uomini. Tuttavia il suo zelo e il suo attaccamento all’impero lo rendevano l’eroe che l’esercito imperiale necessitava per fare un po’ di propaganda. In realtà il caporale non era certo un elemento da prendere a modello: barattava gli averi dei caduti per bottiglie di liquore, che divideva col capitano König (Josef Blàha), un ubriacone costantemente imboscato. Mentre il corrispondente di guerra prendeva nota della visita al fronte dello stato maggiore austroungarico, una visita solo formale visto che la prima linea era stata chiaramente lasciata ad una certa distanza, tra una coppa di champagne e l’altra la situazione precipita. I russi accerchiano il settore in cui si trovano gli alti ufficiali che ora sono in trappola, il reggimento del colonnello Ziegler deve proteggere il comando che proverà a trovare un riparo. Il colonnello vorrebbe rimanere coi suoi uomini ma il generale Berger glielo impedisce costringendo il sottoposto a lasciare il reparto senza guida e allo sbando, in breve facilmente sopraffatto ed annientato. Ziegler, disgustato, si suicida; Berger ne approfitta per addossargli la colpa di aver mandato il suo reggimento allo sbaraglio.
La situazione è sempre più critica: la sola squadra di Hoferik è rimasta a far da balia agli alti ufficiali, tra cui i due generali, un barone ed un corrispondente di guerra. Il caporale prende in mano la situazione e propone ai suoi superiori di guidarli in salvo attraverso il bosco, sfuggendo così al controllo dei russi. Mentre lo strano drappello si avvia, salta fuori il capitano König che dormiva su un carro smaltendo l’ultima sbornia. La presenza del capitano sarà decisiva, al momento opportuno, per risolvere il problema in cui gli ufficiali si sono cacciati. Perché sfuggire alle guardie russe non è così semplice e al primo scontro una mitragliatrice nascosta costringe gli austriaci a ritornare sui loro passi non senza lasciare pegno di sangue. Tra gli ufficiali, il generale Gross rimane sul terreno ed un altro è ferito alla mano. Il drappello trova rifugio in un edificio abbandonato. Gli ufficiali vorrebbero arrendersi, gli zaristi non li tratterebbero certo male per via del loro nobile rango; dal canto loro i soldati della truppa sono stufi di andare al macello. L’unico che ancora ci crede è ovviamente Hoferik; e per il generale Berger questo è un problema, visto che il caporale incarna lo spirito indomito del fedele suddito dell’imperatore. E qui che entra finalmente in gioco König, capitano, e quindi ufficiale, ma anche amico e socio in affari di Hoferik. Il capitano propone di istituire una corte marziale, condannare Hoferik per aver causato la morte del generale Gross, mandare la truppa in missione in avanscoperta (a farsi massacrare) e finalmente arrendersi. In guerra, non solo la disciplina e l’onore evaporano nel momento critico, ma anche i sentimenti borghesi, come l’amicizia o l’essere soci in affari, vanno allo stesso modo in fumo. Quello che conta è avere capacità di adattamento, opportunismo, velocità nel saltare sul carro migliore. Le immagini al rallenty e la violenza esibita, in avvio, potevano far pensare che Signum Laudis forse una versione bellica de Il Mucchio Selvaggio (1969, di Sam Peckinpah). In effetti c’è anche la scena finale coi protagonisti che camminano verso la macchina da presa. Ma proprio questa scena rivela la vera natura dell’opera di Martin Hollý: parafrasando il capolavoro di Luis Buñuel, potremmo quindi definire lo spirito che impregna Signum Laudis come il fascino discreto della guerra.
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