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mercoledì 11 gennaio 2023

M. BUTTERFLY

1200_M. BUTTERFLY Stati Uniti 1993; Regia di David Cronenberg. 

Il Pasto Nudo era sembrato il capitolo definitivo della poetica di David Cronenberg. Forse non del tutto convincente, soprattutto all’epoca, e probabilmente anche molti tra quanti ne erano rimasti affascinati non ne avevano del tutto compreso la portata. Tuttavia che si fosse davanti al testo che condensava concettualmente l’arte di Cronenberg vista fin lì era abbastanza chiaro. Non a caso Cronenberg, per il suo successivo film, accetta di lavorare ad un soggetto e una sceneggiatura già bell’e pronti, pur di tornare dietro alla macchina da presa relativamente in fretta. Come per Videodrome (1983) l’esperienza intensa de Il Pasto Nudo richiedeva un successivo approccio meno diretto in profondità per l’autore canadese. M. Butterfly era una pièce teatrale di successo ad opera di David Hwang ma la prima stesura di una sceneggiatura cinematografica dell’autore cinoamericano non convince affatto Cronenberg che ne chiede una completa riscrittura. In ogni caso il regista si avvicina in modo meno coinvolto rispetto all’immersione totale che era stata Il Pasto Nudo ma, a guardar bene, anche della quasi totalità della sua filmografia. E in effetti M. Butterfly si presenta come un cambio radicale nella poetica del canadese. A partire dal trailer che annuncia una sorta di kolossal orientale sulla scia della tendenza del tempo, ad alcune prime volte che contraddistinguono questa nuova fatica di Cronenberg. Per la prima volta siamo lontani dai generi horror e fantastico e, conseguentemente, prima volta senza make-up e trucchi importanti; inoltre Cronenberg per girare M. Butterfly deve, ed è la prima volta, andare all’estero, a parte poche scene realizzate a Toronto. 

Oltretutto, il tenore del racconto, un melodramma a cui manca il pathos sentimentale abituale al genere, lo rende distante da quello che ci si aspetterebbe da un film di Cronenberg. Questi elementi spiegano le ragioni del flop al botteghino oltre allo scarso entusiasmo che, ai tempi, i fans del regista canadese manifestarono. Oltretutto, Il Pasto Nudo aveva già lasciato sconcertati molti abituali spettatori di Cronenberg e questa nuova svolta si rivelò, in termini di gradimento, anche peggiore. In realtà di pathos M. Butterfly è stracolmo, solo non in una forma così facilmente assimilabile come ad esempio lo si può trovare nei tipici melò di un Douglas Sirk o di un Raffaello Matarazzo. Forse consapevole che questo suo film può essere percepito come qualcosa di estraneo – anzi, eccessivamente estraneo, dal momento che tutti i film di Cronenberg lo possono sembrare – alla sua filmografia, il regista chiama ad interpretarne il ruolo principale Jeremy Irons. 

Cronenberg, prima di prendere possesso del tipico lungometraggio cinematografico inteso come prodotto commerciale, ci aveva impiegato un po’: i primi due sperimentali Stereo (1969) e Crimes of the future (1970) sono esempi lampanti in questo senso ma anche i successivi avevano comunque un punto di vista particolare, spesso collettivo o estraneo alla storia. Qualcuno aveva detto che guardare un film di Cronenberg era come osservare un acquario e questo in parte rendeva bene l’idea. Lo sguardo era estraneo, dall’esterno; lo sguardo del regista, d’altronde. Però lo stratagemma narrativo di un protagonista forte permette un’identificazione maggiore e un coinvolgimento più naturale dello spettatore. Si tratta di una convenzione, sia chiaro; e in quest’ottica, che il protagonista sia un maschio, bianco e abbastanza giovane agevola ulteriormente la fruizione. Ad adottare questa soluzione, Cronenberg arriva sostanzialmente con Videodrome, dove chiama James Wood come personaggio principale. Nei successivi quattro lungometraggi per interpretare i protagonisti maschili sono ingaggiati attori sempre diversi, quasi ci fosse una nuova regola che lo stesso attore non potesse lavorare in più film. Jeremy Irons nei panni di René Gallimard è quindi un’ulteriore novità ma è anche, allo stesso tempo, un legame forte con la filmografia di Cronenberg, vista l’importanza del ruolo dell’attore inglese in Inseparabili (1988). Nel quale interpretava la duplice parte dei gemelli Mantle che, con il loro torbido legame, erano uno dei punti di spicco per comprendere la poetica del regista canadese. Anche in M. Butterfly Irons è alle prese con tendenze omosessuali o comunque poco lineari ma se prendiamo la sinossi della trama ci rendiamo conto di un’altra cosa. Si è sempre visto che la filmografia di Cronenberg proceda grosso modo a film accoppiati, per temi o argomenti, dai citati Stereo e Crimes of the Future fino a La Mosca (1986) e Inseparabili; poi era arrivato Il Pasto Nudo che, al tempo, qualcuno acutamente definì il masso erratico nella filmografia del canadese, a simboleggiarne l’ingombrante unicità unita ad una scarsa comprensibilità. Una strana storia di spie e omosessuali condita da insetti volanti: che a sommi capi, potrebbe essere una descrizione buona anche per M. Butterfly

L’ultimo film di Cronenberg, insomma, non era affatto una pellicola che si poneva in discontinuità con l’opera del regista: interpretata da un attore cruciale nella filmografica del canadese, si legava per temi e contenuti, esattamente come le altre, con il suo film gemellare. Non che fosse semplice comprenderlo, sia chiaro. Il tema dell’equivoco, della cosa fraintesa, consapevolmente o meno, è peraltro l’argomento portante del film, già esplicitato dai soliti bellissimi titoli di testa: paraventi, paratie, schermi, ombrelli di carta, maschere, volteggiano in aria come sospesi. Fluidi come i pensieri, che l’inganno che interessa Cronenberg è nella mente e non tanto nei corpi solidi. Del resto, per un film che affronta l’argomento del travestitismo, il regista è condizionato anche dall’uscita in anticipo su M. Butterfly de La moglie del soldato (1992) di Neil Jordan. 

I film hanno più di un aspetto in comune ma quello che preoccupa il canadese è il fatto che anche nell’opera di Jordan il protagonista si innamori di una donna che poi si rivela essere un uomo, esattamente quello che succede in M. Butterfly. La moglie del soldato fu un successo clamoroso e indubbiamente parte del fascino del film è legato all’interpretazione di Jaye Davidson nel ruolo dell’ambigua fanciulla. Il meccanismo che mette in scena il regista irlandese è, per così dire, quello più prevedibile in questi casi: un uomo si innamora di una donna che in realtà donna non è. Davidson è però, almeno nel film, molto femminile e credibile come ragazza tant’è che Jordan per dimostrare che è un uomo deve mostrarcelo nudo, genitali compresi. La reazione sbigottita di Fergus/Stephen Rea, che vomita al vedere il pene dell’amata, è quella del pubblico; benché poi la trama proponga il superamento della cosa, l’impostazione in questo aspetto de La moglie del soldato è particolarmente convenzionale. 

Fergus non è attratto da Dil, il personaggio di Davidson, in quanto transgender o qualunque altra forma simile, nemmeno in maniera inconscia o latente. E’ banalmente ingannato; pensava che Dil fosse una donna invece era un uomo. Al netto delle conseguenze funzionali del film, nelle quali Jordan riesce poi a sistemare le cose, sul piano del desiderio e dei suoi meccanismi, che sono da sempre il punto cruciale, La moglie del soldato è un film decisamente conservatore. E questo ne spiega il successo commerciale: al pubblico piace particolarmente affrontare temi scabrosi salvo poi venire rassicurato. Cronenberg, che c’è da credere volesse impostare diversamente la cosa sin da subito, ammette pubblicamente di essere stato influenzato dal film di Jordan (Chris Rodley Il cinema secondo Croneberg, 1994, pag, 231) ma per prenderne ancora maggiormente le distanze. John Lone, che interpreta Song, la Butterfly di cui si innamora il protagonista René Gallimard, non è mai eccessivamente femminile e meno che mai convincente al cento per cento come femmina da un punto di vista estetico. E’ ambiguo e lo è abbastanza da permette a Gallimard di coltivare la sua illusione, questo sì. Quello che interessa a Cronenberg non è tanto l’inganno in sé, quanto se questo inganno è davvero un inganno o se invece sia un errore cercato in modo più o meno consapevole. 

La reazione di Gallimard quando vede Song vestita da uomo al processo è diversa da quella di Fergus ne La moglie del soldato. Il diplomatico francese non ha alcun moto di disgusto; c’è semmai l’estremo stupore ma, per cosa? Perché Song è un uomo o per il fatto che, mostrandosi pubblicamente vestito in giacca e cravatta, abbia fatto crollare il suo sogno? Tutte e due le risposte sembrano valide ma poi, in una delle scene migliori del film, nel veicolo cellulare che porta Gallimard in carcere e Song all’aeroporto, Cronenberg ha modo di chiarire. Gallimard dà uno sguardo a Song nudo, e di sfuggita anche alle sue parti intime, ma non è quello il punto. Song non è più Butterfly e questo è quanto. Non conta più di tanto il genere sessuale a cui appartiene il cinese, Butterfly era un’idea, l’ideale di femminilità pensato da Gallimard ed interpretato da Song. Il concetto è che il desiderio nasce da quello che abbiamo dentro noi stessi e noi stessi proiettiamo sull’altro, più che da quello che veramente vediamo. E qui torna in soccorso il tema degli schermi, che impediscono di vedere davvero e danno modo a chi guarda di immaginare quello che vuole. Seppur titubante, nel guardare Song nudo Gallimard non appare turbato quanto piuttosto infastidito. Ne dà anche la motivazione: ‘per aver perso tutto quel tempo dietro ad un inganno’. Ma Gallimard nel film guarda anche un’altra persona nuda, l’inarrivabile Frau Baden (Annabel Leventon) che al diplomatico francese, in quel momento all’apice della carriera, decide invece di concedersi. 

E gli si presenta senza veli, mostrando un fisico certamente invidiabile, considerato che non è più una ragazzina. Eppure Gallimard, che pure non si sottrae al ruolo di maschio alfa, non sembra particolarmente eccitato: “sei esattamente come mi aspettavo” è il commento che non lascia trapelare troppo entusiasmo. Il parallelo tra il desiderio per una femmina e per un maschio en travesti è ancora più esplicito dopo il primo incontro tra Gallimard e Song. A casa, a letto con la moglie, la donna ripete le stesse parole di Song, sul fatto che nell’opera di Giacomo Puccini sia importante la musica e non la storia, e oltretutto ne fornisce una breve interpretazione. In pratica le stesse cose che avevano stuzzicato Gallimard se fatte da Song; per comprendere la reazione dell’uomo alle azioni della consorte Cronenberg si affida dapprima allo sguardo spento di Irons, rafforzato simbolicamente dalla scena subito seguente nella quale il diplomatico francese ammazza una mosca in ufficio, attività tipica di chi si annoia. O forse, con quel simbolico gesto è come se eliminasse l’insetto dalla cabina di teletrasporto de La Mosca e, in questo caso, la mosca in questione potrebbe interpretare il desiderio per la moglie. 

Quasi che gli insetti, con la loro natura e la metamorfosi che ne contraddistingue lo sviluppo, siano il perfetto detonatore per chiarire come funziona il desiderio sessuale secondo Cronenberg. Tornando alla virilità mostrata da Gallimard si può vedere ancora il lavoro attento del regista visto che il suo protagonista non è affatto un imbranato con le donne e quindi non ha questa scusante che ne possa motivare l’abbaglio clamoroso che prende. Le modifiche di Cronenberg al testo, tratto come detto da una pièce teatrale di Hwang, sono notevoli ma la battuta ‘solo un uomo sa come dovrebbe comportarsi una donna’ era già nel soggetto originale ed è esattamente quello che stimola la curiosità del canadese. Il punto, secondo Cronenberg, è che l’attrazione tra i sessi sia relativamente importante e per capire questo va fatto riferimento al momento in cui Gallimard vede Frau Baden nuda. Siccome non ne stuzzica la fantasia, perde fascino. Ma non è questione di etero o omosessualità, perché la stessa cosa capita con Song nel cellulare. Nel citato libro-intervista di Rodley Cronenberg spiega che la sensazione di noia infastidita di Gallimard è la stessa di molte persone sposate dopo anni di convivenza con lo stesso partner. E’ questione di abitudine, assuefazione, quindi? Ad un certo punto, Song ne fa cenno, ma Gallimard lascia cadere la cosa. Probabilmente Cronenberg inserisce questo passaggio per farci capire che ha ponderato la questione ma non l’ha ritenuta cruciale. La chiave semmai è il passaggio in cui Gallimard riceve in dono una libellula da un pescatore: come la farfalla (butterfly), la libellula nella sua vita deve affrontare la metamorfosi. Il desiderio sessuale, che è già dentro di ognuno, deve potersi rivelare, trasformare: le contaminazioni sono altresì importanti, anzi fondamentali, come la citata mosca finita erroneamente nella cabina di teletrasporto ne La Mosca, la Butterfly di M. Butterfly entra in contatto con il nostro protagonista. In un film che pullula di quinte, separé, ambienti chiusi e soffocanti, la trasformazione di Gallimard, o meglio del suo desiderio, può trovare tutti i bozzoli necessari. Se quasi tutto il film è claustrofobico, il finale, come tutte le fasi salienti del racconto, si apre in uno spazio circolare: il teatro dove Gallimard si innamora di Song, il tribunale dove scopre che è un uomo e l’atrio del carcere dove tiene l’ultimo spettacolo. E’ la rivelazione finale dove la trasformazione interiore diviene manifesta. 

Certo, nel racconto ci sono anche tracce di politica, che in parte Cronenberg ha lasciato rispetto alla pièce, dove erano più rilevanti. Alcune sono usate nella logica dell’inganno che domina la storia, come il prendere una storia ambientata in Giappone e trasferirla in Cina, quando tra i due paesi non corra poi questo buon sangue, per quanto agli occidentali possano sembrare simili. Il tema dell’inganno riguarda anche il protagonista, che finge di sapere cose che non sa e invece semplicemente si inganna per incompetenza su altre. Ma il tema sulla forza del desiderio sessuale di Gallimard è troppo dirompente, perché gli aspetti sociopolitici reggano il confronto. Alla fine, Gallimard si rende conto che l’attrazione sessuale, anche se necessita di uno stimolo esterno, è l’attrazione verso sé stessi: lui è diventato la sua Butterfly. Un cortocircuito che, una volta divenuto consapevole, non può che condurre ad una soluzione, quella estrema. L’attrazione sessuale funziona finché riesce ad ingannarci. Non a caso lo stesso regista, per parlare della vita matrimoniale, cita quella sospensione dell’incredulità necessaria per credere ai film di fantascienza meno plausibili. L’amore per l’altro è quindi una bugia: in questa amara presa di coscienza c’è la sintesi del desiderio sessuale. Può esserci una soluzione o il film di Cronenberg è totalmente pessimista? Un film che si chiude con il suicidio del protagonista non può che essere pessimista, e questo è evidente. Però nella tenace illusione che Gallimard cova, almeno finché il controspionaggio non gli rompe le uova nel paniere, possiamo leggere una fiammella di speranza. E se il diplomatico francese della nostra storia è arrivato ad amare, ricambiato, un uomo cinese credendolo la donna dei suoi sogni, allora la felicità è davvero a portata di mano.
Sta a vedere che M. Butterfly è un film ottimista. 






John Lone


  Barbara Sukowa 

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