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domenica 29 gennaio 2023

I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA VENERE D'ILLE

1211_I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA VENERE D'ILLE Italia, 1981; Regia di Mario e Lamberto Bava.

Il secondo appuntamento con i film televisivi della serie I Giochi del Diavolo si inserisce nel solco dell’esordio, sia per qualità media del prodotto che per temi specifici. Ovviamente una certa attinenza è scontata, essendo tutti i film della serie Storie fantastiche dell’Ottocento, come recita la tag-line introduttiva del programma, ma tra gli autori dei soggetti, e i soggetti stessi, di questi due primi film si va al di là della generale affinità legata all’appartenere allo stesso genere. La Venere d’Ille, prima che film di Mario e Lamberto Bava, è un racconto di Prosper Mérimée, autore misconosciuto ma almeno da ricordare anche per Il vaso etrusco oltre che per Carmen, il testo reso celeberrimo nella versione musicata da Georges Bizet. Non è, quindi, un autore relativamente importante che la RAI, con la sua trasposizione televisiva, vuole riscoprire giusto per darsi un tono, con quel vezzo un po’ snob che contraddistingue spesso questo genere di operazioni. Mérimée è uno scrittore interessante, seppure non particolarmente prolifico, e bene ha fatto l’ente televisivo nazionale a metterlo al centro dell’attenzione. Volendo guardare, anche questo è un elemento che accomuna i primi due film del ciclo I Giochi del Diavolo, visto che neppure E.T.A. Hoffman, di cui era stata tradotto sul video L’uomo della sabbia (per la regia di Giulio Questi), ha una fama che renda merito al suo valore. 

Ma le analogie tra Mérimée e Hoffman, e di conseguenza dei due film citati, vanno al di là della loro scarsa popolarità, e di cui la principale si può condensare nella capacità di far coesistere l’elemento fantastico con una prosa realistica e impersonale. Fu davvero troppo severo il grande Victor Hugo quando chiuse una sua poesia con il tranciante verso “il paesaggio è piatto come Mérimée”, perché l’autore de La Venere d’Ille quando si dilunga nelle questioni archeologiche legate all’origine greca della statua ci mette passione e competenza e accresce la credibilità del racconto, sebbene forse a danno di una maggiore scorrevolezza (annoiando di conseguenza Hugo). I Bava, padre e figlio, sono bravi perché nella trasposizione televisiva, realizzata peraltro con mezzi cinematografici, sfumano questi aspetti del racconto, lasciando in maggiore risalto l’enigmatica figura della statua e la sua vera o presunta capacità di animarsi in qualche modo. 

E qui salta all’occhio un’altra analogia con L’uomo della sabbia, visto che in entrambi i casi abbiamo una figura inanimata di donna che prende misteriosamente vita. La regia dei Bava, non potendo e forse non volendo, ricorrere ad effetti speciali per animare la statua della Venere ricorre alla suggestione, in parte quella di cui vediamo gli effetti sui personaggi del racconto, in parte quella provocata negli spettatori direttamente dal film. Ovviamente questi ultimi sono i passaggi migliori, si veda ad esempio quello del riflesso della statua sul vetro della finestra, ma va riconosciuto che La Venere d’Ille, pur essendo un testo interessante, in quest’ottica non si può certo dire l’opera migliore di Mario Bava e nemmeno del figlio Lamberto. Tra gli attori Daria Nicolodi (è Clara) aiuta a creare la giusta indefinita atmosfera per alimentare la traccia fantastica, mentre Marc Porel (è Matthieu) assiste in modo impersonale allo sviluppo della trama, interpretando perfino in modo eccessivo lo scetticismo di un certo tipo di spettatore. Fausto di Bella (è Alfonso) ha invece l’ingrato ruolo sacrificale sebbene il suo personaggio prima della tragica fine ha modo di spassarsela, attività che l’attore italiano interpreta con entusiasmo. Nel complesso il film funziona; difficile dire se la trasposizione abbia colto la poetica di Mérimée, ma certo ne ha trasmesso una parte della sua eredità. I veri valori borghesi – ben rappresentati dal matrimonio d’interesse tra Alfonso e Clara – nella prima metà dell’Ottocento cominciavano già a mostrare i loro limiti, messi in chiara evidenza nel confronto con la severa e austera bellezza della cultura classica – la Venere. Forse Mérimée, e come lui molti altri romantici ottocenteschi, non l’avrebbero mai supposto ma quasi due secoli dopo quelle criticità non si sono affatto risolte. Anzi. 


Dario Nicolodi 

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