1209_LA TREGUA . Italia, Francia, Germania, Svizzera 1997; Regia di Francesco Rosi.
Tratta dall’omonimo libro di Primo Levi, La tregua di Francesco Rosi è quindi un
film che racconta il viaggio di ritorno a casa dei sopravvissuti di Auschwitz,
proprio come nel testo all’origine. Il tono quasi leggero del racconto, che è
esplicitato sin dal titolo, voleva evidenziare uno stato di pausa, nella condizione terribile di
Levi e degli altri reclusi del campo di concentramento; ma prima o poi ci si
aspettava risuonasse ancora il perentorio Wstawac,
il comando della sveglia che invitava
i prigionieri ad alzarsi. Perché, come ripete anche nel film il greco, la guerra non è mai finita, guerra è sempre! Rosi quindi prova ad
interpretare sullo schermo questa sospensione del dramma ma non sembra
cogliere appieno la valenza del discorso di Levi. Per quanto si professasse
sospettoso (tregua, come concetto da
utilizzare per definire una liberazione, è emblematico), lo scrittore
raccontava di un suo ritorno alla vita; Rosi fatica un po’ di più, (molto di
più?) e i suoi personaggi in questo intento forse paiono anche eccessivamente pittoreschi. John Turturro è un intenso
(forse troppo di maniera?) Primo Levi accompagnato da una combriccola di guasconi: il
romano Cesare (Massimo Ghini), il ladro di professione Ferrari (Claudio Bisio),
il violinista Unverdorben (Roberto Citran), il siciliano D’Agata (Andy Luotto),
il bel Daniele (Stefano Dionisi) e il citato filibustiere greco Mordo Nahum
(Rade Serbedzija), simpatico come una multa. Con questi elementi il ricordo
del lager quasi sbiadisce e pare lieve anche l’assurdo peregrinare che porta i
reduci, prima del ritorno casa, fino in Bielorussia – cioè a nordest rispetto ad
Auschwitz, ovvero la direzione completamente opposta alla destinazione finale – con un viaggio più lungo del necessario di un qualche migliaio di chilometri,
molti dei quali fatti a piedi. Una simile odissea dopo una lunga detenzione in un
campo di concentramento nazista, questo giova sempre ricordalo; e se Levi l'assoluta disperazione dei reduci riusciva a sospenderla
in ossequio a quella tregua di cui parla già nel titolo della sua opera, con il
film di Rosi si rischia di dimenticarla per davvero. E questo è forse il limite
maggiore di un film che, va riconosciuto senza indugio, si prende un rischio
enorme, come portare sullo schermo un testo tanto delicato e, nel complesso,
riesce anche ad essere una buona prova d’autore.
Ma il paragone col libro, in questo caso nemmeno troppo
fuori luogo, pesa come un macigno.
Lorenza Indovina
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