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martedì 3 gennaio 2023

ENIGMA FRANJU_9: MON CHIEN

1195_MON CHIENFrancia 1955; Regia di Georges Franju.

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Dello stesso anno è Mon Chien, cortometraggio che la Società per la Protezione degli Animali premia con l’Oiseau Bleu, il suo più alto riconoscimento. In effetti Mon Chien è un bel film, ben diretto e intriso di quell’equilibrio tipico di Franju per cui si può dire che è straziante eppure in modo sobrio e discreto. Da notare che il tema civico del film, la condanna dell’abbandono degli animali da parte dell’uomo, è esplicita e consapevole e il film, come detto, è del 1955, praticamente venti o trent’anni in anticipo sulle campagne sullo stesso argomento che furoreggeranno in giro per il mondo in seguito. Ma, al di là della sua lungimiranza, Mon chien è un bel film e i suoi meriti vanno oltre la giusta condanna all’odiosa pratica dell’abbandono degli animali. Il film ha come protagonista il cane Pierrot (interpretato da Rex) un pastore tedesco, per cui i dialoghi sono ridotti al minimo: un ruolo importante l’avrà la musica di Henri Crolla, spesso dolce e melodica a far da contrasto con il clima narrativo del racconto anche se non mancano i passaggi che creano tensione anche grazie al commento sonoro. 
Al momento dell’abbandono, infatti, Mon Chien ha qualche momento di puro cinema, come lo sguardo della piccola Jaqueline Lemaire sulla levetta dello sportello dell’auto ad anticipare il suo estremo tentativo di non lasciare il suo amato Pierrot. La scena in cui i suoi genitori si accorgono che la bimba è uscita dalla vettura è notevole e in generale tutta la sequenza che prepara l’abbandono del cane è organizzata con precisione mirabile. Alcuni dettagli della costruzione di Franju meritano di essere annotati: nella coppia benestante – la bella automobile, la villa d’epoca – la donna sembra avere un ruolo non secondario né passivo. E’ una bionda platino degna di un film di Hollywood, guida l’auto e fuma mentre è al volante: siamo a metà degli anni Cinquanta, è bene ricordarlo. Il marito entra in scena per il passaggio più drammatico, l’inganno ai danni del povero cane, nel quale si comporta da vero aguzzino ma quando la figlia scende disperata dall’auto è la moglie a recuperarla e a chiudere la questione. Se la donna, nella coppia, si dimostra quindi particolarmente attiva, l’uomo si segnala per la scaltrezza con cui sfila il collare al cane in modo da non renderlo più riconducibile alla famiglia. Interessante anche la scelta di Franju che, per un film di condanna dell’abbandono degli animali, dedica meno di un terzo al fatto in sé, lasciando la parte più corposa dell’opera al peregrinare del povero Pierrot. Dopo essere stato scacciato anche da una chiesa, l’anticlericalismo di Franju fa già una breve comparsata, l’animale è raccolto dall’accalappiacani e rinchiuso in una piccola gabbia del canile. Qui al regista bretone non serve molto per arrivare dove vuole arrivare e un carrello sulle gabbie con i poveri cani getta anche lo spettatore più cinico nello sconforto. Un’asettica voce narrante ci informa che i cani, qualora non vengano rapidamente reclamati dai proprietari, vengono spediti alla camera a gas o sul tavolo della vivisezione. A questo punto basta l’arrivo dell’incaricato del canile che legge le targhette, si ferma davanti alla gabbia di Pierrot e lo preleva, per farci capire il finale. La voce di Jacqueline che disperata invoca il suo cane dinnanzi alla gabbia vuota, più che uno stratagemma per strappare qualche lacrima è il doveroso riconoscimento che l’umanità non è ancora del tutto perduta.
_continua. 














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