Translate

lunedì 23 gennaio 2023

IL MALE NON ESISTE

1206_IL MALE NON ESISTE (Sheytān vojud nadārad). Iran, Germania, Rep. Ceca 2020; Regia di Mohammad Rasoulof.

“L’Iran da solo è il Paese che ha contribuito di più all’aumento del numero globale delle pene capitali” con queste parole il sito internet Osservatorio Diritti fotografava nel 2021 la tragica situazione del paese mediorientale. Come sua abitudine, il cinema, in queste condizioni sociali difficili, diventa uno strumento cruciale: e oltretutto il cinema iraniano non è certo un cinema qualsiasi ma semmai l’espressione di un movimento vitale e più che mai deciso a far sentire la sua voce nonostante la pesante censura di regime. Tra l’altro il tema ha preso particolarmente vigore, non che ce ne fosse bisogno, in tempi successivi a quell’analisi. Il Male non esiste film di Mohammad Rasoulof Orso d’oro a Berlino 2020 diventa quindi un testo indispensabile. Diviso in quattro episodi, il lungometraggio di Rasoulof si apre con Il Diavolo non esiste che, dopo una lunga fase di studio, sfodera un finale che mette lo spettatore totalmente KO. Da un punto sportivo il film andrebbe sospeso per dar tempo al malcapitato di riprendersi ma naturalmente non sarà così. E dire che l’approccio era stato tranquillo: nel corso di questo primo capitolo, infatti, assistiamo alla quotidiana vita di Heshmat (Ehsan Mirhosseini) e della sua famiglia. L'uomo è un bravo marito; aiuta la moglie nelle faccende di casa, va con lei a fare la spesa, a prendere la figlioletta a scuola e ad assistere l’anziana madre. La macchina da presa di Rasoulof rimane stretta sulla coppia, soprattutto nei tragitti in auto: l’Iran, dai finestrini della macchina, oppure all’interno del supermercato, sembra in tutto e per tutto un paese occidentale. 

Non è un posto poi così terribile, viene da pensare. Ma poter vivere una vita tranquilla come un normale cittadino del mondo libero, in Iran, ha un prezzo. E lo scopriamo nel traumatizzante finale del primo episodio, quando tornato al suo lavoro, quasi distrattamente Heshmat abbassa una grossa leva. I piedi che si agitano per alcuni lunghissimi secondi, mentre sullo sfondo da uno dei cadaveri appesi sgocciola anche dell’urina, sono ben oltre la soglia di sopportazione, vuoi per drammaticità in sé, per la sorpresa della scena inaspettata e, soprattutto, per la consapevolezza che non si tratta di fantasie astratte dell’autore. Come detto Il Male non esiste non concede pause e ci troviamo già nel secondo capitolo, Lei ha detto: lo puoi fare. Intanto salta all’occhio subito come Rasoulof faccia notare che le donne iraniane non sono figure di secondo piano, come vorrebbe l’attuale regime, perché il titolo del capitolo fa esplicito riferimento ad un permesso che una lei ha concesso e che autorizza il protagonista del racconto Pouya (Kaveh Ahangar) a fare qualcosa. 

Pouya è un soldato di leva e apprendiamo così che anche i militari non di professione devono assolvere l’incarico di giustiziare i condannati a morte. Il ragazzo non sembra però in grado di compiere un simile abominio e tentenna, si dispera in preda ad un’angoscia tale da sembrare lui ad essere destinato alla pena capitale. La scena è claustrofobica con il nostro attorniato dai commilitoni nella stretta stanza della caserma che provano a convincerlo che si tratta di un’esperienza comune a tutti loro. E poi non hanno responsabilità dirette, che compete invece al tribunale; e se il condannato è stato giudicato colpevole, non sarà poi questo stinco di santo, e via di questo passo con tutte le attenuanti che i giovani si sono a loro volta dati quando è stato il loro momento. Ma Pouya non è affatto d’accordo e, per questo, si era messo d’accordo con la sua ragazza, da cui arriva appunto il via libera, per scappare come da piano concordato. 

La fuga del militare certifica che l’impressione avuta era esatta: la pena di morte è una condanna che affligge non solo i quali vengono giustiziati. Il successivo capitolo Compleanno, ribalta questo assunto: il soldato di leva Javad (Mohammad Valizadegan) il suo dovere nella sala delle esecuzioni l’ha fatto. Ora è in licenza premio e sta per recarsi al compleanno di Na’na (Mahthb Servati) per chiederle ufficialmente, nell’occasione, di fidanzarsi con lui. A casa di Na’na ci sono tutti e la situazione sembra propizia, con la ragazza consenziente e i famigliari di lei ben disposti verso il ragazzo. Peccato ci sia un funerale proprio in quei giorni: un caro amico di famiglia è stato giustiziato dal regime. Quando Javad vede la foto dell’uomo a lui in teoria sconosciuto – e drammaticamente lo riconosce – crolla il suo mondo. Il tuffo nel torrente stavolta sembra un tentativo estremo; nel film il tema del lavarsi è invece ripetuto più volte, quasi che sia necessario a tutti quanti di mondarsi da un peccato tanto grave compiuto effettivamente nel nome del popolo.

Baciami, il quarto e ultimo capitolo, ci propone una prospettiva ancora diversa. Darya (Baran Rasoulof, star della pellicola e figlia del regista) è una ragazza che torna in Iran dalla Germania, dove era andata a vivere dopo la morte del padre. Ad attenderlo c’è suo zio Bahram (Mohammad Seddighimehr) che, a sorpresa, rivelerà alla giovane di essere il suo vero genitore. Al tempo l’uomo rifiutò il ruolo di boia, finendo ai margini della società civile iraniana, dove tutt’ora vive; da quell’indigenza la necessità di spedire la figlia all’estero. In una landa desolata e spoglia, peraltro bellissima, va in scena un astioso dramma famigliare con Darya che accusa suo padre di averle precluso, con i suoi scrupoli di natura personale, la possibilità di una vita normale. La ragazza, prima della rivelazione sul suo passato, era stata a caccia con Bahram ma si era rifiutata di sparare ad una volpe. All’apice dello scontro dialettico, l’uomo rinfaccia alla figlia la sua stessa debolezza, nel risparmiare l’animale. Ma Darya non sente ragioni: nessuno avrebbe sofferto per questa sua scelta a differenza del caso in cui era stato Bahram a rifiutarsi di dispensare la morte. Il film si chiude così: Rasoulof (il regista) lascia in sospeso il giudizio anche se il fatto che ad interpretare il ruolo di Darya sia sua figlia Baran può essere un indizio. Il cineasta è, come molti altri suoi colleghi, inviso al regime e sua figlia è dalla sua parte, partecipando appunto alla realizzazione del film. Si tratta quindi più che altro di un’assunzione di responsabilità, la presa di consapevolezza che ribellarsi all’ingiustizia istituzionale avrà spiacevoli ripercussioni. In ogni caso, la volpe che fa capolino nel finale, guardando una Darya ancora furiosa più che dubbiosa, sembra quasi volerle dire che si sbaglia e che risparmiare una vita è un dovere morale al di là delle conseguenze che la cosa può avere.   




Baran Rasoulof



Galleria di manifesti 





Nessun commento:

Posta un commento