1358_SECRET LIVES aka I MARRIED A SPY . Regno Unito, 1937; Regia di Edmond T. Gréville.
Come tutte le arti composte, il cinema quasi mai è la semplice sommatoria delle singole componenti. Ad esempio, Secret Lives – pellicola di Edmond T. Gréville, altrimenti nota come I married a spy – verte su una storia di spionaggio in cui di intrigo ce n’è ben poco, ha una sponda sentimentale che non si scalda mai veramente e, per finire, un’ambientazione bellica del cui conflitto vero e proprio non c’è traccia. Emblematico, per quest’ultimo aspetto, il passaggio in cui alcuni militari francesi stanno giocando a carte e vengono informati che la Prima Guerra Mondiale è finita: i soldati non battono ciglia e continuano la loro partita. Passaggio non privo di umorismo che, tuttavia, non maschera le pesanti lacune nel canovaccio: eppure, Secret Lives è tutt’altro che un film brutto. Manca di ritmo e di verve ma, sotto un certo aspetto, questi limiti ben incarnano lo spirito di un film che mai, tutto sommato, vuol sembrare divertente. E ne ha ben donde, ad essere onesti. Secret Lives è una produzione britannica ma Gréville, il regista, è francese e la star chiamata ad interpretarlo, la bellissima Brigitte Horney, è tedesca. Insomma, almeno a prima vista, gli intenti appaiono quelli di non dare una visione parziale ma un minimo obiettiva: o, forse, il punto di vista d’oltremanica sulle beghe continentali e sulle loro conseguenze. L’Inghilterra è da sempre maestra nella propaganda, bellica e non, e Secret Lives, a suo modo, ne è un’ulteriore dimostrazione. In ogni caso, i venti della Seconda Guerra Mondiale, nel 1937, spiravano già fortissimi e questo giustifica la scarsa allegria del racconto. La sensazione di pericolo che si avvertiva allora, può far oggi sorgere il sospetto che la maggior ‘distribuzione delle colpe’ prevista nel racconto del film, sia dovuta al tentativo di non indispettire troppo i tedeschi – al tempo già abbastanza attizzati di loro – evitando quindi di addossare loro, in esclusiva, l’etichetta di cattivi. Perché, se è vero che il Servizio Segreto tedesco non è che faccia una gran figura, nel film, Gréville riserva un trattamento simile a quello francese. Anzi, nel senso di responsabilità nazionali, il film è anche più critico nei confronti dei transalpini: siamo in Francia e, quando scoppia la guerra, Lena (la Horney), figlia di un panettiere, si trova subito al centro di una manifestazione di aperta ostilità da parte dei suoi concittadini. Tra questi, alcune donne – riprese dal regista con primissimi piani talmente ravvicinati da risultare quasi deformanti – sono particolarmente accanite, sia nei confronti suoi che del padre. La colpa della famiglia di panettieri? Essere tedeschi.
Ma è solo l’inizio dei loro guai perché arriva presto un ufficiale francese che conduce i due, padre e figlia, in un centro di detenzione che qualche sinistro ricordo ce lo provoca. Al di là di questo – che la prigionia in tempo di guerra è brutta un po’ ovunque – quello che si può notare, e in questo anche un film minore come Secret Lives si rivela preziosissimo, è che l’ostilità verso lo straniero, pronta a sfociare nell’odio, negli anni Trenta del Ventesimo Secolo, non era affatto ritenuta una prerogativa tedesca. Non si tratta di stabilire se i fatti narrati in questo specifico aspetto, siano un elemento storicamente attendibile, non essendo Secret Lives un reportage o un documentario. Il punto è che, se regista e produttori, hanno messo tale situazione sullo schermo – all’interno di un film commerciale con espliciti rimandi di matrice storica – ci sono buone probabilità che sia una situazione plausibile e che abbia avuto un qualche riscontro nella realtà.
Questo aspetto di un film riguarda maggiormente il periodo di uscita, rispetto a quello in cui è ambientata la vicenda narrata sulla pellicola; in sostanza l’ostilità francese verso i tedeschi che gronda da Sevret Lives è quindi riferita ai tardi anni Trenta, in quel periodo che avrebbe condotto il mondo nella Seconda Guerra Mondiale. E il lungometraggio, seppure è prodotto – viene il sospetto in modo un po’ scaltro e strumentale – dagli inglesi, è comunque diretto da un regista d’Oltralpe, questo va comunque tenuto a mente. E allora anche un filmetto, tutto sommato leggero come Secret Lives, potrebbe indicare come le condizioni propizie e favorevoli allo scoppio della guerra non fossero presenti solo nel paese di chi, la guerra, l’ha poi, effettivamente, dichiarata e ne è spesso ritenuto unico responsabile. Neanche il tempo di finire queste disquisizioni che, Lena, la nostra protagonista, è scappata dal centro di prigionia ma è stata già catturata e, vista la sua intraprendenza unita all’innegabile avvenenza, è assoldata dall’Intelligenze d’oltralpe. Per essere un film degli anni 30 Secret Lives procede spedito e, dopo una veloce missione in cui la neo spia è fatale ad un ufficiale tedesco, viene organizzato un matrimonio per conferire alla donna la cittadinanza francese in maniera che possa lavorare in modo meno esposto. Qui subentra la traccia sentimentale, con il tenente Pierre de Montmalion (Neil Hamilton), costretto da un ordine militare a sposare la donna, salvo poi accettare di buon grado la nuova condizione. In effetti la Horney era una donna splendida e Lena, come personaggio, era di carattere determinato ma dolce: un mix irresistibile, insomma. Tuttavia la vicenda sentimentale langue, anche per la scarsa vitalità mostrata da Hamilton che, come interprete, non risulta particolarmente memorabile. Come accennato in precedenza, la fine della guerra arriva relativamente in fretta e, sorprendentemente, la pace ha una svolta negativa sulla coppia protagonista. Il matrimonio, che aveva ragioni puramente belliche, è annullato e questo sarebbe anche niente, se ne potrebbe fare uno vero, a quel punto.
Purtroppo i superiori di Lena decidono di spedirla al suo paese di nascita, dove l’attendono i Servizi Segreti del posto per farle la festa. Pierre, quando se ne rende conto, corre come un disperato, ma manca d’un soffio l’appuntamento e il film si chiude in modo tragico, con la donna che sparisce nell’interno del lunotto posteriore di una truce automobile. Era necessaria una fine tanto drammatica e strappalacrime? Probabilmente per Gréville sì, perché per tutto il film non fa che legare, avvinghiare, imbrigliare, con qualunque stratagemma visivo, la sua povera protagonista. Dai giochi di ombre, ai ricami sulle pareti, ai disegni delle vetrate, alle decorazioni ridondanti, il film di Gréville è impostato in modo sopraffino sulla composizione visiva e non sembra dare nessuno scampo a Lena. Un altro tema registico soffocante dell’opera sono i primi piani: spesso ultra-ravvicinati, quasi deformanti, incombono sullo spettatore come sui personaggi durante i dialoghi. Nella maggior parte dei casi, a trovarsi a tu per tu con questi faccioni inquietanti, è proprio Lena, la cui sorte sembra non avere sbocchi. In effetti, oltre a questo lavoro sulle immagini ben gestito da Gréville, anche la vicenda toglie ogni riferimento a cui si possa aggrappare la povera ragazza: è trattata con ostilità in Francia ed è nemica della Germania e perfino il matrimonio, che le aveva dato un minimo di serenità, è finto. Curiosamente, nell’unico momento di felicità, durante la convivenza con Pierre, questi aveva eliminato i ghirigori barocchi della casa e, senza l’intervento di Lena, avrebbe addirittura rotto un caminetto in marmo finemente scolpito. Certamente l’uomo rivelava di avere l’indole di un buzzurro, finanche le decorazioni erano eccessive e opprimenti ma, in un testo fortemente simbolico e stilizzato come quello di Gréville, l’azione di Pierre era forse da intendersi come un tentativo – vano – di liberarsi dalla gabbia creata intorno all’individuo dalla società del tempo. Una sorta di prigione fatta di opinioni, ideali, pensieri, che si presentava come qualcosa di bello, di positivo, di piacevole – le decorazioni – ma che impediva all’individuo di agire in autonomia – le grate. Autonomia che la povera Lena mai avrà per tutto il film, costretta dall’autorità anche a sposarsi, salvo poi vedersi annullare il matrimonio una volta che l’aveva accettato. Va detto che, per quanto i tempi siano certamente cambiati, in un certo senso, la cosa risulta famigliare ancora oggi. Al di là di questi aspetti pessimistici, che in un film del 1937 sono anche comprensibili e oggi qualche pensiero possono mettercelo, va segnalata l’ottima presenza scenica di Brigitte Horney, alla quale Gréville dedica un’attenzione che esalta l’avvenenza dell’attrice. Tra le tante di cui l’attrice è protagonista, merita una menzione particolare per la scena della specchiera, che ci permette di chiudere in bellezza.
Brigitte Horney
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