1472_LA FORESTA DEGLI IMPICCATI (Padura Spanzuratilor). Romania 1965; Regia di Liviu Ciulei.
Bastano un paio di minuti a Liviu Ciulei per impostare il
suo
Klapka non sembra affatto così contento di vedere qualcuno giustiziato, forse perché è di origine ceca proprio come Svoboda. Il comportamento perplesso del capitano, le sue parole, cominciano a minare la sicurezza di Bologa. E’ la funzione del cinema, evidenziata dal fatto che il personaggio di Klapka è interpretato dal regista del film: fare sorgere almeno qualche dubbio. E in Bologa, una volta che si è aperto uno spiraglio nell’ipocrita adesione ai dettami militari, i dubbi fioriscono in quantità: lui è rumeno ma di un’area sotto l’Impero Austroungarico e quindi si trova ora a combattere i propri connazionali. E questa situazione alimenterà, ora che gli è venuta meno la completa e ottusa adesione ai dettami militari, i suoi tentennamenti, i suoi scrupoli. Al punto che lo stesso capitano Klapka si sentirà quasi in obbligo di farlo tornare su posizioni più opportunistiche, evitando cioè di mettersi in luce come disfattista presso il comando militare. Quasi come se il cinema possa, in qualche caso, superare gli intenti stessi dei suoi autori. La funzione del cinema e la sua potenza anche e soprattutto nei confronti degli autori e non solo del pubblico, è resa in modo esplicito dalla vicenda del riflettore. Un fascio di luce (il cinema?) proveniente dalle linee nemiche tormenta le notti di Klapka (la coscienza del regista?) che, per poter continuare a prestare servizio sotto l’esercito, ha bisogno che il proiettore venga fatto smettere. Il capitano, come detto, è di origine ceca ed è già stato sospettato di infedeltà all’Impero; un altro passo falso gli sarebbe infatti fatale.
Ed è proprio a Bologa, colui di cui ha risvegliato la coscienza, che ordina di distruggere il faro. Bologa compie l’impresa, inoltrandosi oltre le linee nemiche e perdendo un cannone e alcuni uomini del commando: ma ai vertici militari pare comunque un’operazione di grande coraggio. Il tenente si lascia però sfuggire qualche perplessità e, proprio nel momento in cui è all’apice della sua carriera militare, comincia il suo declino, finendo sospettato di avere rimorsi di coscienza. Il tema delle diserzioni era probabilmente reale tra le fila di un esercito multietnico come quello Austroungarico; il regista se ne serve per un primo passo nell’ottica di una presa di coscienza di quanto la guerra sia inaccettabile anche da un punto di vista laico e non solo religioso, come sembrava poter essere interpretabile dal racconto di Liviu Rebreanu all’origine del soggetto. La traccia religiosa, intuibile già dal nome del protagonista, Apostol, non può però essere trascurata dal film: saranno dodici, proprio come gli apostoli, i contadini impiccati perché volevano arare il terreno per la semina e questo mal si conciliava con le esigenze belliche. Quando questi poveretti vedono Bologa, rumeno come loro, si illudono che possa fare qualcosa per salvarli: in effetti, con evidente sadismo, il comando ha designato proprio il tenente per presiedere la corte marziale che deve condannare (la sentenza era già decisa) i suoi connazionali. Ma se Bologa è una figura salvifica, lo è solo in senso morale, proprio come Cristo: non manca nemmeno l’ultima cena, offertagli dalla dolce Ilona (Ana Széles). Le donne della storia rappresentato le possibilità di scelta per l’uomo: c’è Roza (Gina Patrichi), la prostituta, che offre una vita di piacere, cogliendo le opportunità; c’è Marta (Mariana Mihut), la sposa promessa, tutta superficialità e conformismo; e c’è Ilona, la povera contadina. Ormai Bologa non può più accettare, non solo la volgarità di Roza, ma nemmeno l’ipocrisia borghese di Marta: ma Ilona appartiene a quella gente che il tenente è chiamato a condannare a morte.
E’ un modo di interpretare il cinema molto raffinato, perché si rende una messa in scena che quasi ostenta i limiti del mezzo tecnico della ripresa, e che il montaggio maschera in modo pressoché perfetto, per rendere la ripresa stessa più credibile. E anche la scelta del bianco e nero sembra andare in questa direzione: si è optato per la soluzione fortemente non realistica (visto che la realtà è a colori) che era uno dei limiti storici del cinema, per conferire al testo un sapore documentaristico rievocando le immagini in bianco e nero che sono emblema della Grande Guerra. Perfino la musica lavora in modo non lineare, presentandosi con suoni ben poco armonici ma riuscendo, nel corso del lungometraggio e nel suo complesso, a creare un’atmosfera perfettamente complementare al testo filmico. Non a caso per
Anna Széles
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