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venerdì 10 aprile 2020

IL TAGLIAGOLE

549_IL TAGLIAGOLE (Le Boucher); Francia, Italia, 1970. Regia di Claude Chabrol.

Ad un certo punto, il macellaio a cui è intitolato il film di Claude Chabrol, osserva come abbia fatto sempre un lavoro simile, il macellaio appunto, sia al negozio che sotto le armi. Il film in questione, Le boucher, o Il tagliagole nella versione italiana, è eccellente, e le allusioni alla Guerra d’Indocina sono una cartina tornasole, una delle tante, del modo in cui il cinema dell’autore francese si relaziona a quello americano (in fondo l’Indocina per la Francia aveva delle assonanze con quello che il Vietnam era per gli Stati Uniti), mantenendo al contempo una fortissima identità. E sul doppio canale sembra impostato tutto il film: intanto i protagonisti sono due, una maestra Hélèn (la splendida Stéphane Audran) e un macellaio, Popaul (Jean Yanne). Le loro figure, una donna bionda e un uomo moro, sono speculari tanto nel fisico che nella personalità: la prima è algida e mantiene un distacco carnale dal suo prossimo, risultato di una forte delusione d’amore; il secondo ha vissuto, e continuerà vivere, in mezzo alla carne, umana o animale che sia. Il tema del doppio è ribadito dagli omicidi di giovani donne che saranno due, così come due le escursioni, nelle grotte e nel bosco, due i momenti di ballo e due le cerimonie, il matrimonio e il funerale. Tra gli abitanti di Tremolat, il piccolo paesino della provincia francese in cui è ambientato il film, si aggira una donna bionda con una pettinatura simile ad Hélèn, che spesso inganna l’occhio dello spettatore, raddoppiando la figura della Audran; e poi l’appartamento dove vive la donna è diviso in due, e due sono gli accendini, dettaglio cruciale nell’economia gialla del racconto e, soprattutto, due sono le cose che mancano a chi sta sotto le armi, almeno secondo Popaul, logica e libertà



Un affermazione importante, perché tra guerra e cinema lo stesso macellaio stabilisce una sorta di parallelo: Popaul non ama infatti i film di guerra, visto che la guerra stessa, quella vera, è un orribile, immenso spettacolo truculento per nulla divertente. Per sfuggire dal quale occorrerebbero logica e libertà. E allora torna il rapporto con il cinema americano, richiamato anche dalla trama gialla che è un omaggio al genere preferito dal maestro tanto amato da Chabrol, Hitchcock; il cinema di Hollywood, soprattutto quello di matrice investigativa, segue sempre l’idea di una narrazione forte, logica. Il cinema francese, soprattutto quello della Nouvelle Vague di cui Chabrol è autorevole ambasciatore, ha, diversamente, una predilezione per la libertà

Compreso questo Il tagliagole in cui, in fin della fiera, a Chabrol non interessa la trama gialla, pur se il colpo di scena dell’accendino è congegniato benissimo. Quando Hélèn lo ritrova accanto al cadavere della ragazza uccisa dal tagliagole (per usare il termine scelto dai distributori italiani), pensa subito che Popaul sia il colpevole. Proprio lei glielo ha regalato. Ma decide di non denunciarlo alla polizia. Perché? Chabrol, tra le tante sottrazioni a cui sottopone il suo testo, elimina anche la storia d’amore: Hélèn rifiuta le avances di Popaul. Non è quindi per motivi di cuore che la donna difende il macellaio. 

O forse si; forse Hélèn stava solo prendendo tempo, lasciando maturare la cosa. Chabrol non sottostà alle regole logiche del racconto d’evasione, che verte sempre sul rapporto causa – effetto. Il suo cinema, come quello più autenticamente francese, preferisce prendersi i suoi tempi, divagare, mettere in scena un contesto più realistico, anche nei rapporti interpersonali. Non a caso alla scuola dove insegna Hélèn stanno leggendo Balzac. Ecco che, in quest’ottica, Hélèn respinge si l’approccio un po’ spinto di Popaul, ma potrebbe essere intenzionata a cedere, in seguito; non è un elemento certo. Di fatto, non lo denuncia quando lo crede colpevole; e chiaramente viene da chiedersi il perché. 

Ci sono di mezzo due donne morte e la possibilità che il tagliagole uccida ancora; c’è una fronda sentimentale, o la maestra ha un moto di comprensione per l’amico, per i suoi tragici trascorsi in guerra? Intanto Popaul, accortosi di aver perso l’accendino, ne compra un altro e lo mostra ad Hélèn alla prima occasione; questo lo scagiona agli occhi della maestra. Al funerale, l’ispettore chiede ancora alla donna se abbia qualche elemento, essendo stata lei ad aver ritrovato il cadavere della seconda ragazza uccisa. Sotto un diluvio opprimente nella non certo atmosfera sollevata di un funerale, ora Hélèn vorrebbe forse segnalare il ritrovamento dell’accendino. 

Il fatto ormai non incastrerebbe più il macellaio, ma Popaul le si stringe vicino, sotto l’ombrello, e la ragazza non sembra trovare una via di uscita dalla situazione per poter parlare. A vedere questa scena, vengono in mente le parole dette in precedenza dalla maestra, mentre leggeva il compito di uno dei suoi alunni: l’aria era così calda che sembrava un cappotto. Qui piove a dirotto ma l’impressione opprimente è la stessa: ancora un effetto speculare, uguale e contrario allo stesso tempo. In ogni caso Hélèn preferisce glissare alla domanda dell’ispettore: il perché non avesse rivelato in precedenza l’informazione dell’accendino è già un passaggio imbarazzante, figuriamoci con il motivo della sua scelta stretto al fianco. L’abilità, tutta francese, di Chabrol in questo passaggio è sublime: in realtà questi elementi rimangono inespressi; in apparenza, quello a cui assistiamo è una semplice domanda dell’ispettore alla donna se per caso le sia venuto in mente niente, con Hélèn che conferma il precedente no. Successivamente, Popaul trova il primo accendino a casa della donna, immagina di essere stato scoperto e la situazione precipita.  


A questo punto anche Chabrol, come i suoi personaggi, gioca un po’ a carte coperte e cerca di convincerci che Il tagliagole è un giallo, e lo fa con alcuni passaggi di notevole suspense a casa di Hélèn. Ma si è detto, a Chabrol non interessa la trama investigativa, e lo si poteva capire sin dalle parole di Popaul, quelle in cui spiegava i suoi due modi in cui, nella vita, aveva fatto il macellaio, in guerra e al negozio. Mentendo; almeno in prospettiva. Perché il boucher, Popaul, lo avrebbe fatto anche in una terza maniera, macellando le povere ragazze finite sotto la sua lama; ed era a questa sua attività che faceva riferimento il titolo del film. Mancando, quindi, l’elemento forte che sembrava sostenere il tema del doppio (i modi di essere macellaio sono tre e non due) cade quindi l’intera specularità presunta dell’opera e i riferimenti, disseminati da Chabrol, a questo punto si può ipotizzare come depistaggi, tornano ad essere elementi tipici di corredo di una classica storia gialla. Almeno in un’ottica tipicamente francese di intendere il cinema: nessuna tessera del mosaico è quella decisiva, neppure l’accendino, ma quello che conta è l’impressione, si potrebbe ben dire impressionista, un po’ sfuggente e indefinita, del quadro generale. Dal quale, per poter cogliere il senso dell’affresco, occorre allontanarsi un po’, proprio come si fa coi quadri di Monet. 


E come fa spesso la macchina da presa di Chabrol, che parte da un particolare, ad esempio nelle sequenze collettive del matrimonio e del funerale e, con un carrello all’indietro, si allontana coinvolgendo nell’inquadratura tutto l’insieme della scena. C’è una presa di distanza, da parte del regista, che sembra lasciare i suoi personaggi alle loro vicende particolari, un po’ come la sua protagonista, la signorina Hélèn, ha fatto chiudendosi alla possibilità di avere una storia sentimentale. E, in questo sguardo complessivo, emerge e si staglia Stéphane Audran: è intorno a lei che si sviluppa il senso del film. Nel film interpreta una figura di donna emancipata, bella, elegante, istruita, professionalmente riconosciuta, e senza bisogno di un uomo per sentirsi realizzata; chissà, forse è anche felice. 

Fuma per la strada, passaggio simbolico, sottolineato da Chabrol: fa quello che le pare dove le pare. E’ il suo essere desiderabile e irraggiungibile allo stesso tempo che manda in crisi Popaul: uccide le altre donne perché non può avere lei. Ma è a lei che alla fine si arrende, nel tragico finale. In genere si cita la fiaba de La Bella e la Bestia, a proposito de Il tagliagole: l’incantesimo di cui è vittima il mostro è il desiderio per la bellezza della protagonista, (sebbene alimentato dagli orrori della guerra), e il lieto fine consiste nel sacrificio della bestia.
Quello che desideriamo, ci distrugge; ma è anche vero che, con quell’ultimo semplice bacio, il tormento interiore si è placato e l’uomo, non più bestia, può finalmente morire.
Di contro, forse, qualcosa si è mosso, ora, dentro l’algida signorina Hélèn, la donna che era riuscita a dominare e mortificare i propri sentimenti. Lasciato Popaul morente all’ospedale, si ferma di notte, con l’auto coi fari accesi, lungo il fiume. Alla mattina la troviamo ancora là, imperscrutabile ma inquieta, a guardare l’acqua, forse cercando il senso di questa vicenda. Che in un giallo è l’elemento cardine, la soluzione dell’enigma, il motivo che ha spinto l’omicida a commettere i delitti: ma Chabrol ci ha sottratto anche questo.  



Stéphane Audran











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