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lunedì 21 novembre 2022

DARK WATERS

1166_DARK WATERS (Siraa Fil-Mina). Egitto 1956;  Regia di Youssef Chahine.

Capolavoro del cinema in assoluto e di quello egiziano in particolare, Dark Waters di Youssef Chahine è un melodramma a tinte, come già si intuisce dal titolo, assai fosche. Per restare appunto al titolo, le acque scure in cui si muove la storia sono quelle di Alessandria d’Egitto, nella quale un giovanissimo Omar Sharif dà corpo a Ragab, uno tra i peggiori protagonisti di un film che il cinema ricordi. Che detta così non sembra troppo promettente, per la nostra storia, visto che in genere parte del fascino di un film deriva appunto dai suoi interpreti principali. Ma al cinema, in Egitto, nel 1956, ovvero in quel periodo che va dalla caduta della monarchia nel 1952 alla nazionalizzazione dell’industria cinematografica nel 1966, si respirava evidentemente un’aria di libertà che si riflette ancora oggi nelle opere di quel tempo. La cosa non deve essere sottovalutata, ovvero l’analisi dei film egiziani in seno alla propria cinematografia, in quanto i Misr Studios contribuirono a rendere quella sul Nilo la terza industria della settima arte a livello mondiale, dietro soltanto Hollywood e Bombay ma davanti a Cinecittà e Pinewood. In quel fortunato clima creativo, Chahine si può quindi permettere un personaggio che, fatto ritorno a casa dopo tre anni da marinaio in giro per il mondo, si dimostra irragionevole, geloso, bigotto, irascibile e, sopra ogni cosa, violento in modo spropositato, arrivando addirittura a minacciare di morte ripetutamente. A fare le spese del suo caratteraccio è in prima istanza la vivace fidanzata, Hamidah (Faten Hamama); forse il marinaio sbarca col piede sbagliato, scherziamoci pure su, ma quando la ragazza si mette a ballare per la gioia di aver riabbracciato l’uomo che ama, si prende una violenta strigliata. 

Già nei bruschi modi con cui Ragab la maltratta solo per il suo esibirsi in pubblico, si evidenzia lo scarso rispetto per la figura femminile che in Egitto era – verrebbe da dire ‘anche allora’ – radicato. Ma quello è niente rispetto alla furia che prende al giovane quando scopre che Mamdouh (Ahmed Ramzy), facoltoso giovanotto la cui famiglia possiede l’importante azienda portuale, insidia sentimentalmente Hamidah. Mamdouh, per quanto approfitti della condizione di agiato figlio di papà passando il tempo a girare in motoscafo invece di dirigere i lavori, non è un soggetto cattivo, anzi. Il suo interesse per Hamidah è sincero e, in ogni caso, quando vede che la ragazza è legata al fidanzato, prova a giocare sì le sue carte ma in modo pulito. In regia, intanto, Youssef Chahinefu intreccia questo focoso melodramma con la pista sociale, con gli operai del porto sobillati contro Mamdouh dal vecchio direttore dei lavori (Tawfik El Deken) invidioso della nomina del rampollo di casa nel ruolo di manager al suo posto. Intanto Regab si fa sempre più rabbioso. 

L’ira che lo acceca è in qualche modo da attribuire alla sua scarsa lungimiranza, ad una saggezza davvero ai minimi termini, all’invidia per la ricchezza del rivale e ovviamente alla gelosia scatenata dalla vivacità di Hamidah. Visto l’ascendente che il giovane gode presso i lavoratori portuali, i cospiratori alimentano ulteriormente la sua rabbia canalizzandola al contempo per i propri fini. In preda alla follia e mezzo ubriaco, Regab vuole uccidere ora Hamidah ora Mamdouh, mentre nell’intricato ma ben costruito castello narrativo a farci le spese sarà il saggio capo dei lavoratori, omicidio di cui viene incolpato Mamdouh. 

Qui, Chahine cala tutti gli assi melodrammatici che ha in mano, per cui salta perfino fuori che Regab è fratellastro di Mamdouh, il che sul momento esaspera ancora dipiù gli animi, visto che il nostro protagonista fa conoscenza con quel genitore che lo ha misconosciuto per tutti quegli anni. La situazione è particolarmente intricata e lo spettatore, in qualche momento, ha quasi paura che Regab – che si è reso odioso peggiorando la sua condizione ogni minuto del lungometraggio – possa in qualche modo cavarsela, magari convolando a nozze con l’amata, visto che Hamidah, nonostante i lividi e le paure, ancora lo ama. In quei frangenti, si potrebbe pensare che l’unico modo per salvare moralmente Reagab, sia un suo sacrificio finale. Chahine non è così estremo ma riesce comunque a far magistralmente quadrare il cerchio: il sacrificio quasi fatale lo compie Mamdouh ma va riconosciuto che, quasi miracolosamente, Regab rinsavisce. Salva il rivale e si imbarca di nuovo, ammettendo sostanzialmente di non meritarsi il lieto fine. E’ Mamdouh, appoggiato dai suoi genitori, a spingere Hamidah a seguire il proprio cuore. La scena in cui la ragazza arriva correndo all’impazzata sulla spianata del porto, minuscola nell’ampia panoramica sullo schermo, chiamando disperata il suo uomo, è da pelle d’oca, nonostante ci si renda conto, con innegabile rammarico, che Regab stia per essere riabilitato dal racconto in tempo per il lieto fine. Il giovane, sul momento, non sente la voce di Hamidah, assordato dai fischi della nave ormai in partenza; poi finalmente se ne accorge e si tuffa nelle acque scure del porto. Hamidah, non resta a guardarlo ma, coraggiosamente, si tuffa anche lei e, dopo averlo abbracciato tra le onde spumeggianti, le rifila un amorevole cazzotto sulla testa. Comunque troppo lieve.  




 
Faten Hamama




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