IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE
1072_THE LONG BREAKUP . Stati Uniti, 2020; Regia di Katya Soldak.
Da quando, nel 2014, la crisi russo-ucraina è entrata nel vivo, sono stati prodotti numerosi documentari divulgativi che hanno cercato di spiegare le ragioni della controversia. Da Winter on fire: Ukraine’s fight for freedom (2015) reperibile su Netflix, a Breaking point: the war for democracy in Ukraine (2017) che mantiene il punto di vista occidentale sulla faccenda; poi ci sono i documentari prodotti da Oliver Stone, Ukraine on fire (2016) e Revelaing Ukraine (2019) che, al contrario, danno una narrazione filo russa. Ci sarebbero altre molte opere, come Postcards from Ukraine, che si può citare come esempio tra i tanti per via del titolo che chiarisce l’approccio intimo di questi documentari. Questi ultimi film non coprono l’intera vicenda storica, affidandosi in genere alle esperienze dei vari personaggi tirati in ballo, spesso parenti o amici dell’autore. In ogni caso, restando in tema di documentari, con una simile quantità di opere i fatti principali dovevano giocoforza esser stati sviscerati in modo abbastanza esaustivo, si potrebbe pensare. Era quindi necessario un altro testo simile, nel 2020? Se l’opera in questione è The Long Breakup di Katya Soldak di sicuro. The long breakup è il documentario più chiaro, obiettivo e esauriente sulle vicende ucraine del periodo dagli anni Settanta, che la Soldak ricorda quando era bambina, fino ad oggi. Katya ora vive negli Stati Uniti e indubbiamente questo aspetto influenza il suo sguardo, tuttavia la sua formazione è stata rigidamente sovietica e quindi, almeno in parte, la cosa è compensata. In ogni caso sono forse le qualità personali della donna a fare la differenza: il suo approccio è dubbioso sui quesiti da risolvere e rispettoso delle opinioni altrui.
Il suo punto di vista è, naturalmente, filo occidentale, convinta com’è che il destino dell’Ucraina sia di far parte di quella comunità internazionale che lei, bambina cresciuta nei tempi sovietici, non aveva potuto conoscere. Katya è nata a Kharkiv, nell’est dell’Ucraina, e ha speso molti giorni della propria giovinezza nella vicinissima Russia, che ricorda con nostalgia, così come parla con un certo affetto della statua di Lenin che, per decenni, ha dominato la piazza principale della sua città. Per raccontare la Storia del suo paese, Katya sceglie di parlare di e con i famigliari e i conoscenti più stretti, andando quindi a svelare il lato intimo di un popolo che si deve stabilire sia effettivamente ucraino e autonomo al 100% oppure se rimanga comunque nell’orbita russa. Pur se la prospettiva del racconto è dettata dalle sue posizioni filo occidentali, la bravissima giornalista dà quindi voce anche a quegli amici che sono al contrario convinti che il posto dell’Ucraina sia sotto l’egida russa.
Persino Alex, il suo patrigno ha questa idea e, nel corso del documentario, esprime molto chiaramente il suo punto di vista che è grosso modo quello dei russofoni dell’area. Ma la vera protagonista del film è Nina, la madre della regista: in effetti, l’evoluzione di Nina rappresenta in modo esemplare la Storia recente dell’Ucraina. Attenzione: la vera Storia, ovvero quella che permea il popolo ucraino fino alle radici e che quindi è immune alle mode del momento. Nina è una donna nata e cresciuta fino alla piena maturità immersa nell’universo sovietico; proprio come l’Ucraina. Non è quindi donna incline ai facili entusiasmi. La troviamo apatica e indifferente di fronte alla caduta del muro di Berlino e alla fine del comunismo sovietico.
Mentre parla di quei tempi, nemmeno il ricordo della celebre ballata degli Scorpions, Wind of Change, vera e propria colonna sonora di quegli eventi cruciali, sembra scaldarla un po’. Le interviste di Katya sono anche dell'epoca, e vi si può leggere l’onesto scetticismo con cui Nina si trova ad affrontare i primi problemi che un regime democratico comporta, come per esempio le votazioni; anche rispetto alla rivoluzione arancione del 2004 la donna sembra poco partecipe. Le difficoltà dell’Ucraina nel primo decennio del terzo millennio si concretizzano con l’avversione di Nina verso la leader politica Juliya Tymoscenko, al punto che la madre di Katya si reca alle urne concorde con il marito Alex a votare Victor Janukovyc.
Se Nina ammette di votare il meno peggio, l’uomo sembra invece abbastanza soddisfatto dietro una certa indifferenza di facciata: il voto a Janukovyc significa, in concreto, tornare tra le braccia di Mosca. Una sorte che è vista, in sostanza, come garanzia di pace e tranquillità dai nostalgici dell’Unione Sovietica. Ma, come noto, il terremoto è dietro l’angolo e Euromaidan esplode in tutta la sua potenza. Katya, che al tempo ormai vive già a New York, ne è profondamente turbata e torna in patria. Quando si reca nella sua Kharkiv, trova ovviamente un ambiente assai più soft rispetto alle ribollenti proteste di piazza Indipendenza a Kiev. Qualcuna delle sue amiche di infanzia sembra peraltro abbastanza partecipe delle rivendicazioni europeiste; perlomeno nel week end, che in settimana si lavora. Ma è Nina a stupirci: tira fuori un coraggio che non ti aspetti e si dimostra tutto sommato attenta alla questione, approvando il movimento rivoluzionario. Da lì in poi la donna si renderà conto della realtà in cui vive, come se le fosse caduto il velo davanti agli occhi, per usare le sue parole, e deciderà di prendere la giusta posizione a riguardo. L’Ucraina è l’Ucraina e non una parte della Russia. E guardando la solida determinazione della donna, si capisce che più saranno forti le pressioni, politiche o militari che siano, da parte del Cremlino, più forte diverrà lo spirito di indipendenza della nazione ucraina.
Complimenti a Katya Soldak per il suo splendido e sentito lavoro.
Ma, soprattutto, chapeau, signora Nina.
Katya Soldak
Nina
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