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sabato 20 agosto 2022

DONBASS

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1077_DONBASS . Germania, Francia, Paesi Bassi, Romania, Ucraina, 2018;  Regia di Sergej Loznitsa.

L’apprezzato regista Sergej Loznitsa ritorna sugli scottanti argomenti della crisi ucraina dopo il documentario Maidan del 2014; stavolta l’oggetto della sua Macchina da Presa è la guerra nel Donbass. Il titolo, Donbass, appunto, è quanto mai esplicativo soprattutto per gli spettatori occidentali in quanto l’area geografica in questione è salita agli onori della cronaca proprio per la rivolta o guerra civile (a seconda della prospettiva con cui la si approccia) ivi esplosa. Basta il nome di questo lembo di terra dell’Ucraina al confine con la Russia, per istradarci subito sul tema del racconto. Nel 2018 il Donbass era diviso e conteso tra le milizie ucraine e i separatisti filorussi: Loznitsa, che è autore di livello, non scade in una eccessiva retorica di parte (nel suo caso filo ucraina) realizzando un film anche distaccato, da questo punto di vista, tuttavia nelle didascalie si premura di ribadire ogni volta che i territori in mano ai rivoltosi sono occupati. Difficile stabilire se sia la definizione giusta con gli elementi che l’informazione ci mette a disposizione; di sicuro c’è che la comunità internazionale occidentale non riconosce le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk. Tuttavia stiamo guardando un film e non un trattato di geopolitica e, quindi, qualunque sia la situazione, la scelta più opportuna per definire questi territori è una concessione che, al regista, si può naturalmente concedere senza problemi. La sua è una posizione di chi è coinvolto nel conflitto e quindi il suo punto di vista ne è una conseguenza ed è sacrosanto. Per quanto, dalla prospettiva dello spettatore occidentale, si fatica a cogliere distinzione tra ucraini e ucraini filorussi, almeno stando a Donbass, il film in questione. 

Simbolicamente, come sguardo a cui aderire per un'opinione sulle popolazioni in lotta, possiamo prendere la signora ucraina che viaggia sull’autobus che viene fermato ad un posto di blocco dei separatisti. L’ispezione a bordo del soldato filorusso non è particolarmente approfondita, ce ne saranno di peggio in seguito, ma certo non è vissuta poi in modo così amichevole. Prima di scendere il ragazzo chiede ai passeggeri, in modo a metà tra il divertito e il provocatorio, un pezzo di burro o almeno qualcosa che faccia da condimento per insaporire il suo rancio: nessuno fiata ma la citata signora richiama il militare e gli offre parte del suo lardo, che per lei quello che ha di fronte è soltanto un ragazzo e potrebbe essere suo figlio. E’ un momento tenero, sebbene ben stemperato dalla rustichezza della donna e dalla guasconeria del militare. Tuttavia non è questo passaggio il più importante, nel film; questo serve per comprendere meglio la poetica di Loznitsa evitando poi di lasciarsi impressionare dalla violenza di tanti altri momenti del racconto. C’è anche l’umorismo, spesso macabro, che va a dare il suo contributo nel creare un’alchimia magistrale tra i vari elementi narrativi che conferisce a Donbass l’equilibrio tipico delle opere di grande valore. Tra i passaggi spassosi si possono ricordare quello scatologico quasi in apertura e il matrimonio ai limiti del surreale (o forse ben oltre). 

Ma, a ben vedere, sembra intrisa di umorismo acido tutta quanta la struttura del film: l’opera si presenta con la vena metalinguistica di molto cinema contemporaneo, con la prima scena in cui potremmo essere in presenza di un dietro alle quinte di una docufiction. Anche se la scritta TV che campeggia sulla schiena di alcuni operatori ci fa temere che quello che si stia mettendo in scena, a bella posta, è la ripresa di un presunto evento di cronaca preso dal vero. In ogni caso, la medesima scena ritorna nel finale, a conferire la struttura circolare e quindi ben poco ottimistica all’opera, ma con un significativo cambiamento: la realtà, in questo caso bellica, fa irruzione fuori dal set di ripresa andando drammaticamente ad irrompere in quelli che potremmo definire improvvisati camerini degli attori. 

E’ quasi una battuta goliardica, da parte di Loznitsa: a furia di ripetere le stesse finte scene (il trucco per simulare i lividi) questi personaggi hanno fatto una fine fin troppo realistica. E già questo è uno dei significati di Donbass e, in generale, della guerra: si pensa che evocarla sia solo uno strumento per ottenere uno scopo ma troppo spesso poi quello che si concretizza è unicamente la guerra stessa. Ma, si è detto della natura metalinguistica del film e, giustamente, Loznitsa riserva magistralmente a questa componente l’aspetto migliore e più significativo della sua opera. Donbass è un film di finzione composto da una serie di racconti sostanzialmente scollegati tra loro, sebbene non via sia una separazione con didascalie o altre indicazioni. 

Tuttavia i segmenti narrativi hanno protagonisti diversi e si occupano di argomenti diversi: praticamente Donbass è un film ad episodi. Eppure c’è sempre qualche elemento che collega i vari racconti, spesso solo un dettaglio ma l’impressione che ne deriva è che ci sia un filo conduttore che sorregga tutto il racconto. L’arrivo sulla scena dell’auto sequestrata, nel finale, nella citata scena cruciale, ha certamente un significato pragmatico nell’assurdità della guerra e in parte nell’accusare i separatisti di crimini (la cosa è detta esplicitamente) tra i quali prendersela con l’informazione o l’arte (gli attori uccisi). Però questo si poteva ottenere anche senza utilizzare lo stesso personaggio e la stessa macchina di un altro segmento narrativo: bastava prendere dei soldati separatisti e la lettura degli eventi sarebbe stata la stessa. Quindi, sottolineare questo ritorno sulla scena, soprattutto dell’auto che ha un ruolo rimarcato, nel racconto, visto che viene sequestrata con massimo scorno del suo proprietario, deve avere un altro senso. Ed è proprio quella l’impressione che ci lascia Donbass: i tanti rimandi del film ci fanno supporre che quello che accade deve avere un significato, anche se sul momento ci sfugge. Come se ogni azione abbia una sua motivazione e come conseguenza un’altra azione: purtroppo la trama intricata e labirintica non ci permette di cogliere il disegno generale. Che, invece, sembra obiettare Loznitsa, non c’è. Il senso dei rimandi di Dubass è che servono a mascherare la mancanza di senso. Proprio come succede in un conflitto bellico, dove si accampano motivazioni e pretesti intricati e poco comprensibili ma in ogni caso insufficienti a giustificare le conseguenze degli scontri. Utilizzando metalinguisticamente la struttura narrativa della sua opera, Loznitsa dà la spiegazione alla follia della guerra. Chapeau. 




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