IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE
1078_DONBASS, BORDERLAND (Dombass, Okraina). Russia, 2019; Regia di Renat Davletyarov.
Presentato addirittura alla 13° edizione del Festival del Cinema di Roma, il film di guerra Donbass, Borderland ci presenta la crisi russo-ucraina in ottica insolita, almeno per il pubblico occidentale. Certo, passato lo stupore nell’apprendere di tale attenzione da parte degli organizzatori, poi lascia un po’ delusi lo scarso rilievo dato all’occasione. D’accordo, il film di Renat Davletyarov nel nostro paese verrà presumibilmente considerato propaganda del Cremlino ed è innegabile che la prospettiva dell’opera sia quella. Tuttavia a fronte di una questione così spinosa come lo è quella legata all’annosa guerra civile che divampa nel Donbass, avere la possibilità di confrontarsi con la parte meno prossima (mettiamola così) può essere utile, magari per riuscire a cogliere qualche elemento collaterale rispetto alla prevedibile traiettoria narrativa intenzionale dell’opera. E spesso è proprio in questi dettagli secondari che si possono scorgere le motivazioni reali, rispetto al tema centrale che si trova per sua stessa natura sotto i riflettori e quindi è assai meno ingenuo e sincero. E poi, concettualmente, ignorare o liquidare sbrigativamente la campana dell’altro è sbagliato oltre ad essere una politica che rischia di ritorcersi contro chi la pratica: la stessa cosa, infatti, può essere fatta dalla controparte con il risultato di infilarsi inevitabilmente in uno sterile muro contro muro. Nel nostro caso, di occidentali, la parte che abbiamo evidentemente sposato ufficialmente è quella ucraina, con Kiev che cerca di non perdere le regioni di Donetsk e Lugansk così come già successo con la Crimea, che i russi sono riusciti invece ad annettere alla loro federazione.
Innanzitutto una piccola riflessione sul titolo dell’opera: l’originale Donbass, Okraina è diventato, per il mercato internazionale Donbass, Borderland. Il sito IMdB, in genere punto di riferimento per il cinema, si premura di dirci che si tratta di una mera traduzione; in effetti si ritiene che il termine Ucraina derivi dalla parola slava che significava qualcosa tipo terra di confine, borderland, appunto. Ora, lasciarlo intendere un po’ come fosse il sinonimo di Ucraina, è certamente curioso, visto che la nazione, una volta consolidato la propria autonomia ne ha, di conseguenza, imposto un significato più specifico e peculiare. L’Ucraina è l’Ucraina e riferirsi ad essa, o lasciarlo vagamente intendere, come ad una terra di confine pare un filo tendenzioso: il significato che ne risulta è che l’Ucraina sia la terra di confine di uno stato che la comprenda. Tipo la Federazione Russa, insomma.
In ogni caso, Donbass, Borderland è formalmente un bell’horror bellico, uno di quei film che utilizzano gli stilemi del cinema di paura per riproporre le situazioni che si creano durante le guerre. Il parallelo è talmente funzionale che si rivela adatto non solo a cogliere lo spirito di queste opere cinematografiche ma anche della moderna guerra. Ormai le scene di terrore puro sono abituali, durante i conflitti: non è più soltanto la paura di morire in quanto, ad esempio, sembra quasi che rimanere ammazzati sotto un bombardamento sia il meno dei mali. Stando al film di Davletyarov, finire tra le grinfie degli uomini del Battaglione Azov è certamente peggio. In Donbass, Borderland i miliziani ultranazionalisti che in genere vengono assimilati ai nazisti, rappresentano la nota stonata di una contesa che, per quel che si era visto fin lì nel film, sembrava possibile risanare. I personaggi del racconto sono infatti un gruppo eterogeneo che si ritrova in uno scantinato di Marinka per sfuggire ai bombardamenti: dopo accesi contrasti e discussioni, tra gli uomini e le donne che lì vi hanno trovato rifugio, si incominceranno ad intravvedere i segni di una possibile riappacificazione.
Ma prima l’intervento del Battaglione Azov, poi uno di quegli stessi rifugiati, Kolosovsky (Sergej Kholmogorov), ufficiale del Servizio di Sicurezza Ucraino, mettono fine ad ogni speranza. Del racconto, il protagonista principale è Andrey Sokolov (Evgenji Mikheev), giovanissimo soldato ucraino che si ritrova sotto un bombardamento e viene aiutato da Anatholy Tkachenko (Gela Meskhi), veterano delle milizie separatiste del Donbass e vero eroe del lungometraggio. Se non si è capito, Sokolov e Tkachenko sono nemici e, in effetti, la recluta ucraina ci fa anche un pensierino ad eliminare il suo salvatore; poi è energicamente riportato alla ragione dal separatista. Lo si è detto che la prospettiva è appunto filorussa. In ogni caso Sokolov non ci fa una figura poi così negativa; semplicemente si trova nella condizione di non sapere bene cosa dover fare. Uno spaesamento che forse cerca di cogliere lo spirito di quanti non capiscono bene l’oggetto del contendere di questa guerra. Tornando ai personaggi del film, tra i nazionalisti una vera carogna si rivela il citato Kolosovsky che si spaccia per padre civile in angoscia per il figlio e, al contrario, è un tenente colonnello della SBU (l’agenzia che si occupa della sicurezza ucraina) capace di uccidere a sangue freddo, come mostrato in avvio e nella scena drammatica in cui ammazza Tkachenko sparandogli alla schiena proprio quando il gruppo sembrava in salvo.
Nella storia, il tema più importante è il colpire a tradimento: nel parallelo potremmo leggerci una critica all’Ucraina nel momento che ha voltato le spalle alla sorella slava russa scegliendo l’Europa. Nello specifico del racconto, la condanna del tradimento è sottolineata da Sokolov, prima di freddare lo stesso Kolosovsky. E, in un certo senso, anche Oksana (Anna Peskova) era stata tradita: convinta dimostrante di piazza Maidan, la ragazza era stata brutalmente uccida dai soldati del Battaglione Azov, quegli uomini che avrebbero dovuto appunto stare dalla sua parte.
Al contrario, l’inziale diffidenza tra Tkachenko e Sokolov si era poi sciolta in una reciproca stima e fiducia e anche Tatiana (Ulyana Kurochkina), abitante del Donbass con fratello e marito nella milizia separatista, e la bella Natalia (Zhenya Malakhova), volontaria nazionalista, dopo i primi battibecchi avevano trovato una buona sintonia. In sostanza, non c’è disaccordo tra ucraini dell’ovest e dell’est se non fosse per la zizzania seminata da alcuni estremisti nazionalisti: questa è un po’ l’idea che emerge da Donbass, Borderland. La Russia, diversamente, è vista come àncora di salvezza, visto che i nostri superstiti per salvarsi devono attraversare il confine a Upsenka, come i tanti rifugiati che lì si vedono entrare nella federazione. Il piccolo orfano del gruppo, Vanya (Ivan Nekludov), rimasto fino allora febbricitante, sembra inconsapevole di tutto quanto sia accaduto e chiede a Sokolov di aspettare la madre. Il soldato lo accontenta. E’ solo questione di tempo, in fondo. Alla fine il giovane, emblema della stessa Ucraina, dovrà arrendersi all’evidenza e varcare il confine per entrare nella Federazione Russa. Insomma, questa è la sostanza del film. Serve ulteriormente specificare che Donbass, Borderland è un film russo?
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