IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE
1076_RODNYE - CLOSE RELATIONS (Rodnye). Germania, Lettonia, Lituania, Ucraina, 2016; Regia di Vitaliy Manskiy.
Nato in Ucraina ma di profonda formazione sovietica e russa, nel 2016 Vitaly Mansky ha probabilmente le idee già molto più chiare di quanto non voglia farci intendere nel suo documentario Rodnye, conosciuto a livello internazionale come Close Relations. Il significato del titolo è parenti e, in effetti, a quelli si rivolge Mansky per realizzare il suo film: una serie di interviste ai membri della sua famiglia allargata, che finiscono per fornirci una sorta di spaccato dell’Ucraina nel dopo Maidan. Essendo i suoi veri famigliari, sembra difficile pensare che il regista possa in qualche modo organizzare il suo racconto filmico con l’ottica di ottenere un risultato prestabilito; intendiamoci, qualunque documentario, anche il più intimo, ha questo tipo di struttura che l’autore, anche in modo involontario, finisce per conferirgli. Ma qui parliamo di un regista che era responsabile del dipartimento per i documentari della TV di stato russa, realizzando opere e studi sui leader politici, tra cui Putin nel periodo del suo primo insediamento, e curando la propaganda televisiva proprio durante il passaggio tra Boris Eltsin e quello che è ancora l’attuale presidente. Oltre alle competenze di base cinematografiche, Mansky conosce perfettamente l’arte di fornire una determinata soggettiva al racconto e, cosa non secondaria, conosce altrettanto bene le dinamiche politiche di una delle parti interessate nell’attuale crisi ucraina, quella dipendente dal Cremlino. Mansky, in sostanza, sa quello che sta succedendo e ha già un’idea formata, avendo avuto esperienze dirette e conoscenza profonda con chi manovra i fili di questa crisi.
Per assurdo, forse quello che nel documentario l’autore prova a scoprire meglio è proprio il suo paese natale; anche se nello scegliere di farlo attraverso la sua famiglia, così eterogenea e perfino divisa, dimostra di sapere anche in questo caso dove andare a parare. Da un punto di vista tecnico, Mansky compone le sue immagini con sapienza, scegliendo sempre la giusta inquadratura, per gusto ma soprattutto per evidenziare questo o quel significato. In questo il suo lavoro è sopraffino ed è raro vedere un documentario che riesca ad essere godibile anche da un punto di vista del puro piacere della composizione, mai scontata ma sempre motivata dalla volontà comunicativa dell’autore che sfrutta in questo senso ogni singolo fotogramma.
Leopoli, pronti via, il quesito che Mansky pone subito alla madre è una falsa pista, che ci dice della scaltra abilità del regista: la donna è stuzzicata dal figlio sul fatto di cosa la renda ucraina visto che le sue origini non lo sono. Come una sorta di giallista, Mansky cerca di convincerci, almeno sul principio, che il concetto di Ucraina sia del tutto artificiale: in realtà in questo modo permette ai suoi famigliare più convinti del contrario di esporre le proprie ragioni. Niente di rivoluzionario, è chiaro, abitualmente è un modo di fare che ha perfino almeno una definizione – fare l’avvocato del diavolo – la differenza è nei modi ora suadenti, ora risoluti, dell’autore. Inoltre è evidente che, a fronte di temi come questi, con una guerra in corso, non è semplice toccare certi argomenti visto l’inasprirsi della contesa ideologica. Lo si vede nella chiamata via Skype nella quale Natasha, la bella zia emigrata in Crimea, si scontra in modo acceso con i famigliari rimasti a Leopoli e non sembra ci sia modo di deviare la chiaccherata dalle questioni politiche. Natasha è una donna di mezza età decisamente filorussa e il nipote le lascia campo libero per rivendicare le ragioni di Putin e degli abitanti russofoni della Crimea. Però, sommessamente, nei suoi commenti fuori campo quasi sottovoce, fa notare come ufficialmente Natasha si sia recata in Crimea per trovare il figlio Max ma che, in dieci anni, non li abbia mai visti insieme. Quasi a insinuare un’indole poco amichevole della donna oltre che poco sincera; ma, come detto, con garbo, come nota a margine.
Altre tre sorelle della famiglia, della generazione precedente, in una vecchia foto in bianco e nero d’epoca sembrano per assurdo più nitide: nate e cresciute nell’Unione Sovietica, senza quei dubbi o le perplessità che sembrano affliggere le donne e gli uomini dell’Ucraina di oggi. Ma non la madre e le zie di Mansky: perché il regista non le spiana subito la strada, l’abbiamo detto, ma dà però tempo a loro di mettere bene in chiaro le cose. Volendo vedere anche alla quarta sorella, Natasha, assente nella ricorrenza avendo paura di non poter più tornare in Crimea, è data la possibilità di motivare le sue idee. Idee differenti dalle altre tre, come simbolicamente evidenziato in un altro passaggio, in cui si vede una foto famigliare in cui la bella zia al tempo giovanissima è lasciata in ombra, separata dalle altre che sono invece illuminate. In ogni caso alla festa Natasha non c’è, per una sua scelta, come ha avuto ampio modo di chiarire in precedenza. Ma le altre tre sì e la loro unità d’intenti, pur partendo da posizioni diverse, è lo specchio della nuova Ucraina. La madre di Vitaly, stavolta risoluta ad andare a votare, la zia Liuda, che rinnega il suo amore per i divi del cinema sovietico per estensione del suo distacco dall’URSS e dalla Russia, la zia Tamara, una vita da attivista del Partito Comunista ma quanto mai lucida nel definire Putin come degno erede di Hitler, ci dicono chiaramente cha l’Ucraina è davvero in grado di svoltare e lasciarsi dietro il suo passato. La guerra può solo rallentare il processo, al massimo schermarlo per un po’, ma rendendolo al contempo sempre più irreversibile.
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