IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE
1086_THE EARTH IS BLUE AS AN ORANGE . Ucraina, Lituania 2020; Regia di Iryna Tsilyk.
Innanzitutto, il titolo; come dovrebbe sempre essere, del resto. Certo, in genere un’opera è presentata in forma coerente già dal nome e quindi la cosa diventa superflua. Di fronte a The earth is blue as an orange (la terra è blu come un’arancia), titolo del documentario di Iryna Tsilyk, si rimane invece spiazzati. Cosa diamine centrano le arance (blu, poi!?) col Donbass, regione orientale dell’Ucraina dove infuria una sorta di guerra civile, e dove è appunto ambientato il film della Tsilyk? Niente, in effetti. Ma La Terre est bleue comme une orange era già il titolo di un poema di Paul Éluard (si trova in L'Amour la poésie del 1929), un’opera appartenente al movimento Surrealista. Pertanto, ci si possono aspettare immagini surreali, appunto, e ben poco credibili; e il fatto che l’opera sia non uno, ma due documentari concentrici (per così dire), è un terribile cortocircuito. Come è possibile che sia vero tutto ciò, verrebbe infatti da dire osservando la devastazione lasciata nelle aree oggetto del conflitto? Com’è possibile che lo sia ancora oggi, nel terzo millennio? E’ un incubo, un brutto sogno, il frutto di un’immaginazione (malata) lasciata senza freni. E’, in sostanza, surreale. Peccato che sia anche la realtà. E’ già questa semplice analisi ci dice dello spessore dell’opera di Iryna Tsilyk perché tutto ciò non è ostentato, appesantito o pedante; la cosa, il riferimento al poema d’origine, è lasciata alla sensibilità dello spettatore. C’è una didascalia nei titoli di coda che rende merito a Paul Éluard, il poeta francese, ma niente più. Semmai è quello che è mostrato dal film a lasciare appunto spiazzati, proprio come ci si sente davanti ad un’opera surrealista. E nel film, il parallelo con le difficoltà a comprendere la realtà che ci sta di fronte si spinge anche oltre.
The earth is blue as an orange è un’opera fortemente metalinguistica, con l’obiettivo della Tsilyk che riprende la famiglia Trofymchuk nella vita quotidiana ma, prevalentemente, mentre questa è alle prese con la realizzazione di un documentario. Un documentario nel documentario. L’abilità della regista ucraina (al suo lungometraggio d’esordio!) è tale che presto ci dimentichiamo della prima infrastruttura che si frappone tra noi e quanto visto sullo schermo. Naturalmente è evidente che ci sia qualcuno che gestisce le riprese della famiglia che vive nel Donbass (c’è sempre chi lo fa, al cinema, anche in quello di finzione, per cui lo si dà per scontato) ma siamo talmente concentrati sui meccanismi della realizzazione del documentario dei Trofymchuk che si rischia di dimenticarsi che le stesse considerazioni che si vanno formulando valgano poi anche ad un livello, diciamo così, superiore.
Perché, se pare sorprendente come un film, che risulterà poi fortemente autentico (gli occhi umidi degli spettatori nel finale), sia, nella realtà dei fatti, frutto di una totale opera di ricostruzione, lo stesso meccanismo si potrebbe applicare anche al lavoro della Tsilyk. Non c’è sostanzialmente niente di vero nel documentario dei Trofymchuk: le scene dell’isolamento nella cantina, al lume di candela, sono realizzate in modo posticcio; le dichiarazioni dei vari membri sono provate e riprovate, al fine di avere una resa sullo schermo ottimale (per quanto possibile) e credibile. Perfino la scena col carro armato, fermato per la richiesta di antipiretici per uno dei bambini di casa, è girata più volte.
Al cinema, anche il documentario che si presenta nel modo più asettico, dopo il titolo vede sempre (o dovrebbe vedere) il nome dell’autore che, così facendo, si prende la responsabilità di quanto è mostrato sullo schermo e non lascia intendere che questo sia una ripresa oggettiva in senso assoluto (impossibile, da ottenere). Solo se l’autore riesce a cogliere lo spirito artistico del cinema, solo allora quello che metterà sullo schermo sarà verità, in piccola o grande misura, perché l’arte è vera per definizione. La commozione negli occhi degli spettatori, nel finale di The earth is blue as an orange, le loro lacrime, le loro espressioni, considerato che non sono attori e per i 70 minuti precedenti lo hanno ampiamente dimostrato, ci danno la cifra della sofferenza che la piccola cittadina sta vivendo a causa del protrarsi della guerra. Questa è una verità che si può cogliere in modo lampante in The earth is blue as an orange. E’ ancora una volta geniale, la Tsilyk, scegliendo di inquadrare i loro volti anziché insistere sul risultato del lavoro filmico dei Trofymchuk, perché in questo modo ci dà una prova credibile ma mette in risalto anche il rischio connesso. Prima di dedicarsi a questa carrellata sugli sparuti ma partecipi spettatori, che come detto ci rassicura un’ultima volta sulla verità insita in The earth is blue as an orange, la regista vuole infatti mettere ulteriormente a nudo i rischi del mestiere.
Sì, lo diceva anche Pablo Picasso... "l'Arte non è verità...
RispondiEliminaL'Arte è una menzogna che ci fa rendere conto della verità.."
Comunque meglio disinformato che male informato, a mio parere... 🙋🏻♂️
Si beh, quella di Twain era una provocazione, credo. Io penso che per informarsi sia meglio ascoltare i diretti interessati. Poi valutare criticamente.
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