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mercoledì 27 ottobre 2021

THE HATEFUL EIGHT

917_THE HATEFUL EIGHT ; Stati Uniti, 2015; Regia di Quentin Tarantino.

Si sa che al cinema la chiave di lettura del film è in genere in avvio della pellicola, nell'incipit della vicenda: per comprendere meglio è utile avere sin da subito le coordinate dell’opera. Spesso, tanto per non sbagliare, gli autori cercano di aiutarci cominciando ad indirizzarci sulla pista giusta addirittura dai titoli di testa. Questo se si tratta di registi in gamba. Ma il regista di The Hateful Eight è ben più che un regista in gamba: è Quentin Tarantino in forma smagliante. Nel suo secondo western per sintonizzarsi in modo adeguato alla visione basta soltanto leggerne il titolo. La pronuncia inglese di The Hateful Eight presenta una sorta di ripetizione, hate (iniziale di hateful) e eight hanno grosso modo lo stesso suono. Quindi vi è un suono simile ripetuto. Eight significa ovviamente otto che, come cifra, è composta da due cerchi ripetuti e sovrapposti. Ma l'otto è anche l'unione di due anelli, la prima molecola della catena; quella della catena, dell'essere incatenati, è quindi un’altra coordinata, oltre a quello della ripetizione, che prendiamo direttamente dal titolo. Come detto il film è un western, in modo evidente perlomeno nella prima parte; il protagonista principale è Samuel L. Jackson, e questo lo vediamo già dai poster. Un uomo di colore protagonista di un western non è cosa troppo frequente e quindi l'abbinamento al precedente film di Tarantino con Jamie Foxx è abbastanza ovvio. E a questo punto salta all’occhio un altro evidente legame con Django Unchained, visto che in quel film il riferimento alla catena (unchained, scatenato) era anche più esplicito. E non è certo una novità che i film di Tarantino possano venire accoppiati, dalle analogie degli esordi tra Le iene e Pulp Fiction, al legame più esplicito tra le due parti di Kill Bill

Del regista italoamericano, il settimo e l'ottavo sono quindi (anche) due western: ma parlare di sette nel cinema western, vuol dire inevitabilmente evocare I Magnifici Sette (1960, di John Sturges), che ci permette di cogliere un altro aspetto del legame incatenato tarantiniano, visto che Gli Odiosi Otto (questa la traduzione letterale del titolo del film di Tarantino), almeno stando al titolo, sembra giocare ad esserne il capitolo successivo (sette/otto) ma rovesciato (magnifici/odiosi). Quindi già dal titolo si può dedurre che siamo, come al solito con Tarantino, in campo metalinguistico e il tema del film è l'incatenamento alla propria metà oscura. Poi, nello scorrere della pellicola, questi accenni trovano conferme nelle continue ripetizioni nei dialoghi ("Una lettera di Abramo Lincoln? Quell'Abramo Lincoln? Abramo Lincoln il presidente degli Stati Uniti d'America?") e nelle scene (quella iniziale della richiesta di passaggio sulla diligenza, con tutta la ridondante e ripetitiva procedura del Boia (Kurt Russel), oppure quella demenziale della porta dell'emporio). Queste ripetizioni, di fatto, incatenano i personaggi in una continua reiterazione degli stessi gesti; ma il tema delle catene è ovviamente mostrato in modo esplicito nell'uso delle manette dei cacciatori di taglie, ma anche in modo più sottile, grazie alla presenza nella storia di molti afroamericani, evidentemente liberatisi dopo la recente (almeno al tempo del racconto) guerra civile americana. 


Della quale rimangono sulla scena un generale sudista, uno degli Odiosi Otto, e le molte catene appese nell'emporio. L’incatenamento più evidente è quello tra John Ruth, il boia e la sua prigioniera Daisy (Jennifer Jason Leight): sono effettivamente ammanettati ed è lampante anche il contrasto tra loro. Uno è un uomo, sta dalla parte della legge e, seppur facendo il cacciatore di taglie, ha anche un codice etico da seguire. L'altra è donna, è una fuorilegge ed è totalmente senza un briciolo di morale. Ma ce ne sono anche altri, di questi raddoppi, di cui il più importante è il binomio Maggiore Marquis (Samuel L. Jackson) e Chris Mannix (Walton Goggins), uno nero e nordista e l'altro bianco e sudista della peggior specie, quella delle bande di irregolari. 

Questa sorta di gioco di specchi, il legare un personaggio alla propria nemesi, rappresenta il limite che questi personaggi devono superare per potersi dire liberi, senza catene. La rottura della catena porta una perdita ma è la perdita della nostra metà malata, quella parte di noi corrotta. E' una rottura, una rinuncia, che serve per migliorare. In questo senso, l'evoluzione migliore nel film, nel complesso, la compie il presunto sceriffo Chris Mannix, che smette il suo essere razzista, rinuncia ai facili guadagni che gli vengono offerti se si schierasse con il male e rifiuta anche le menzogne con cui cercano di confonderlo. Insomma, rinuncia a tutta la sua storia di manigoldo irregolare sudista; il tutto solo per poter onorare la sua, in verità poco credibile, futura stella di sceriffo. 

Altri due personaggi importanti, speculari nel loro essere metà negativa del primo binomio in scena (Daisy era la cattiva della coppia boia/fuorilegge) e metà positiva del secondo (il Maggiore Marquis era il buono tra la coppia nordista/sudista) compiono, in quest'ottica, un percorso opposto. Daisy non si libererà mai dalla mano di John Ruth, il citato boia, che le rimane incatenata fino alla fine. E sarà una fine dannata, degna del suo look nel delirante finale, a metà tra la Sissy Spacek di Carrie e la Linda Blair dell'Esorcista. Al contrario, il Maggiore Marquis, accuserà pesanti perdite, nientemeno che i gioielli di famiglia (in senso metaforico, ça va sans dire), ovvero la parte di lui peccaminosa e oltraggiosa, come evidenziato dal suo stesso racconto; ma avrà comunque una sorte più dignitosa. 

D'altronde, il film si apre con un Cristo crocefisso e quindi è evidente che ci parlerà anche di espiazione. Ma la cosa più importante a cui il Maggiore Marquis deve rinunciare è la sua preziosa lettera di Abramo Lincoln. Un falso ben fatto, comunque bello da vedere, da leggere, da toccare, e con un tocco di classe, come non può che ammettere Mannix. Un falso che ha permesso al Maggiore afroamericano di avere credito presso i bianchi, un comodo lasciapassare per avere ammirazione ed invidia indebite. Ed è proprio questo il punto cruciale: perché quello di Tarantino, come detto, è sempre meta-cinema (cinema che riflette sul cinema più che sulla realtà) e, in questo ambito, il rischio che si corre, soprattutto quando si è troppo bravi, proprio come il geniale Quentin o i fratelli Coen, è quello di autocompiacersi un pochino troppo. E allora quella lettera forse ricorda vagamente un certo tipo di cinema che è stato anche di Tarantino; un cinema che è spesso bello da vedere, da vivere, da godere ma, e qui è la nota stonata, qualche volta il rischio che ci sia un retrogusto un po' falso, nel suo essere godimento fine a sé stesso, può davvero esserci stato. 
Con questo magnifico ed autentico The Hateful Eight questi eventuali difetti o limiti del cinema di Quentin Tarantino finiscono nel cestino insieme alla falsa lettera di Lincoln.








Jennifer Jason Leigh


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