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domenica 13 dicembre 2020

PARASITE

689_PARASITE (Gisaengchung). Corea del Sud; 2019. Regia di Bong Joon-ho.

La Corea del Sud è una di quelle nazioni asiatiche che risente maggiormente della contraddizione tra il sistema economico imperante e la propria identità culturale. Probabilmente lì, più che altrove, questa frizione è evidente e lampante; tradizioni millenarie sono messe in vivido contrasto con le spietate e moderne leggi del business. In parte la cosa può sembrare ovvia, essendo il sistema economico mondiale risultato di un’evoluzione nata molto più ad ovest, con la Rivoluzione Industriale, e solo nel secondo dopoguerra del XX secolo realmente attecchito in estremo oriente. Per arrivare a Parasite, il film di Bong Joon-ho potrebbe essere preso a manifesto per rappresentare la situazione odierna del paese asiatico. Ma, nonostante ciò, se questo lungometraggio vince gli Oscar più importanti e la Palma d’Oro a Cannes e, ancora più significativamente, se riesce ad essere così appassionante ed avvincente per il pubblico di tutto il mondo, allora vuol dire che quello di Bong Joon-ho è un cinema universale e non solo sudcoreano. Parasite è infatti un film eccezionale: è un film di genere, un thriller ma anche una commedia nerissima, ma, come detto, è contemporaneamente il quadro sputato della società sudcoreana. Infatti, la metafora esplicitata sin dal titolo, con la famiglia di protagonisti che si comporta come parassita di una assai più facoltosa, forse non è una metafora: è proprio lo stato delle cose. Lo sviluppo economico, che ha portato la Corea del Sud ad essere uno dei paesi più ricchi ed industrializzati al mondo, ha incancrenito e accentuato il divario sociale, per cui ci sono persone che appartengono all’elite e altre che stanno significativamente più in basso. 


Ancora una volta non si tratta di metafore: i Park hanno una villa illuminata dal sole e i Kim vivono in uno scantinato. Peggio di questi ultimi c’è il marito della governante di casa Park, appunto la lussuosa villa al centro della scena, che vive segretamente nel bunker sotterraneo della residenza. Il che potrebbe essere poco credibile, è chiaro, ma si è detto della natura un po’ sopra le righe dell’opera di Bong e, in ogni caso, oltre al clima grottesco della storia c’è un evidente rimando all’invisibilità, agli occhi dei ricchi, delle altre classi. Tre membri della famiglia Kim, padre (Song Kang-ho), figlio (Choi Woo-shik) e figlia (Parl So-dam) ad un certo punto sono nascosti sotto il tavolino in salotto e i coniugi Park (Lee Sun-Kyun e la bellissima Cho Yeo-jeong) manco se ne accorgono. 


I poveri saranno anche invisibili ma se ne avverte l’odore: e il fatto che il primo a sentirlo sia il piccolo Da Song (Jung Hyeon Jun) ne rivela l’innocente verità. Non è un luogo comune, i poveri puzzano, e non potrebbe essere altrimenti visto le condizioni in cui vivono; inoltre Ki-jung, il figlio dei Kim, parlandone con Da-hye (Jung Zisu), la rampolla di casa Park, sembra rendersi conto di come l’ambiente in cui si è intrufolato clandestinamente sia abitato da gente di classe superiore. E’ proprio qui il punto: il divario economico sociale finisce per creare differenze concrete, forse più nell’animo delle persone che altro, che però diviene difficile smentire. I ricchi sono gentili, si racconta in casa Kim, perché se lo possono permettere. 

Ma se questo potrebbe essere vero per la signora Park, che per la verità sembra ingenuamente insulsa più che altro, questa affermazione è assai discutibile per il marito, che è un vero e proprio businessman senza scrupoli. La definizione più pertinente che si evince dal quadro cinematografico di Bong è quindi che è gentile chi si occupa di usufruire e spendere la ricchezza mentre chi la accumula non può permettersi sempre questo atteggiamento. Quanto ai poveri, per loro sembra esistere solo la legge della giungla anche se rinfranca almeno un poco vedere la preoccupazione dei Kim per la salute degli abitanti del bunker, seppure dopo i pesanti scontri avuti con loro. Ma è uno dei rari momenti di umanità; il finale, con Ki-jung che sogna, illudendosi di poter comprare un giorno la villa e liberare il padre, ora rinchiuso a sua volta nel bunker sotterraneo, è sconfortante. Non resta che l’illusione di diventare squali capitalisti. E se Parasite ci piace così tanto, forse è perché si tratta sì di una vana speranza, ma che culliamo anche noi.   




  Park So-dam


Cho Yeo-jeong





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