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venerdì 18 dicembre 2020

IL BACIO DELL'ASSASSINO

694_IL BACIO DELL'ASSASSINO (Killer's Kiss). Stati Uniti; 1955. Regia di Stanley Kubrick.

Secondo lungometraggio di Stanley Kubrick, Il Bacio dell’Assassino rappresenta un deciso passo in avanti rispetto all’esordio Paura e desiderio. Certo, rimane una dose di pretensiosità, ma che forse non abbandonerà mai il geniale regista americano e sarà semmai la sua capacità cinematografica ad adeguarvici. Il Bacio dell’Assassino è comunque un lavoro già notevole, se consideriamo che il suo autore è alle prime armi; in realtà questo è difficile da considerare osservando la cura fotografica di alcune immagini, che addirittura ha come un’aria un po’ troppo risaputa. Kubrick era stato un fotografo e, in fondo, almeno in qualche frangente, la superba capacità di messa in scena sembra prendergli la mano anche rischiando di avere risultati poco inerenti con altri elementi del film. Il che contribuisce ad un effetto straniante sul risultato complessivo: passaggi di notevole fattura sono accostati a scelte che possono lasciare lo spettatore perplesso. Ci sono infatti ne Il bacio dell’assassino alcuni elementi che possono sembrare degli errori tecnici: ad esempio, il film è sostenuto dalla voce narrante del protagonista Davey (Jamie Smith), ma poi il flashback che si sviluppa va a mostrare scene dalle quali il nostro pugile è assente. D’accordo, simili leggerezze sono comuni a molti film di genere ma Il Bacio dell’Assassino, al di là del fatto che oggi vi ci si accosti come al primo film di Kubrick riconosciuto dal suo autore, sembra davvero avere delle pretese diverse da un comune noir dell’epoca. Ad esempio, quale significato può avere il racconto di Gloria (Chris Chase), vero e proprio flashback nel flashback che ha le sembianze di un corpo estraneo al resto dell’opera? 

E che, a sottolinearne la singolarità, prevede un racconto che si snoda in vicende particolareggiate mentre una ballerina, la sorella di Gloria, danza sullo schermo per tutta la durata dell’inserto narrativo. Che appare davvero come un corpo estraneo, quasi fosse venuto a mancare il lavoro di imbastitura del regista per amalgamarlo al resto del film. Il che potrebbe anche essere una scelta sperimentale o anche una legittima mancanza di esperienza da parte di un giovane talento della regia; eppure la cifra stilistica di Kubrick, nel proseguo della sua carriera, confermerà questa tendenza a portare in luce le infrastrutture cinematografiche dei suoi film, sebbene con risultati più consapevoli e riusciti. Per la verità in questo caso l’accostamento di due elementi cinematografici (il soggetto principale e il racconto di Gloria) sembra realizzato senza un adeguato lavoro in sceneggiatura: il risultato è che si identificano questi diversi elementi in modo più vivido per mancanza di amalgama. Successivamente questa caratteristica di Kubrick si manifesterà in modo più convincente, ad esempio già nella scomposizione della linea temporale del successivo Rapina a mano armata (1956), dove il lavoro di imbastitura c’è ed è notevole ma scombina completamente le consuete aspettative narrative dello spettatore. 


Ma qualche accenno in tal senso è già riconoscibile anche ne Il bacio dell’Assassino: del commento fuoricampo usato in modo non convenzionale si è detto, e che poi è ulteriormente smentito narrativamente, se così si può dire, dall’uso rilevante del montaggio alternato. Narrazione personale e speculare sono cioè accostate senza dare un riferimento preciso allo spettatore. Allo stesso modo lascia un po’ spiazzati l’impiego spregiudicato del flashback, con i racconti che quasi sembrano mescolarsi, anche per via di una colonna sonora ostentata in modo evidente ma con qualche passaggio poco ligio alle consuetudini. 

Gli attori, nemmeno in questo caso di rango o comunque degni di nota, seppure migliori rispetto al film d’esordio, contribuiscono a dare l’idea di un prodotto a cui manca la finitura; Jamie Smith è un onesto interprete mentre del tutto artificiale risulta Chris Chase, che svilisce la femme fatale della storia in una frigida figura degna di una recita parrocchiale. Diversamente, Frank Silvera dà corpo ad un Vinnie Raphael che è il classico malavitoso viscido e untuoso, forse stereotipato ma credibile all’interno del cinema di genere. L’incoerenza di un simile cast è messa, per assurdo, in risalto, da alcuni passaggi registici assolutamente da rimarcare: la specularità delle vite di Davey e Gloria, ben evidenziata da quella degli appartamenti e dal voyerismo reciproco, la preparazione al momento cruciale, con lo scambio di persona, lo scontro nel magazzino dei manichini, solo per citarne alcuni.
Il cinema di Kubrick comincia, proprio da queste
decostruzioni, a prendere forma. 














Chris Chase




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