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venerdì 25 dicembre 2020

LA DONNA DEL RITRATTO

701_LA DONNA DEL RITRATTO (The Woman in the Window). Stati Uniti; 1944. Regia di Fritz Lang. 

Peter Bodganovic, nella sua intervista a Fritz Lang (racchiusa nell’imprescindibile Il Cinema secondo Fritz Lang, Pratiche Editrice), a proposito de La Donna del Ritratto formula un’unica domanda: “perché decide di far sì che tutta la storia finisse per essere frutto di un sogno? Non si concludeva diversamente il romanzo?”. La risposta di Lang fa riferimento a motivi logico narrativi, in fondo si trattava di una vicenda piuttosto strana, con due personaggi sostanzialmente innocenti che venivano coinvolti in un gioco più grande di loro. Il geniale regista rammenta di una furibonda lite con Nunnally Johnson, sceneggiatore e produttore del film, che non voleva venisse stravolto quanto aveva previsto sul copione. Ma non ti puoi mettere a discutere con un autore serio e responsabile come Lang, pensando di spuntarla, se quello che proponi “non ha nessuna ragione plausibile”, per usare le parole dello stesso regista. La trama, infatti, non è indimenticabile ma Lang, che era un assoluto genio, converte questa povertà narrativa nella possibilità di farne una storia figurativa: La Donna del Ritratto è un film composto da una serie di scene, sequenze, inquadrature, di assoluta perfezione. L’escamotage del sogno che giustifichi le stramberie narrate è impiegato dall’autore con la consapevolezza che si tratti di uno strumento “talmente vecchio che non bisognerebbe usarlo più”, ma viene il sospetto che Lang vi ricorra anche per un motivo diverso da quello ufficiale, ovvero ammantare di onirica ironia tutta quanta la lugubre vicenda. 

Il metodo di lavoro dell’autore nato a Vienna sul testo è, come al solito, di grande precisione ed efficacia: la storia è una sorta di giallo in cui i pochi eventi che accadono sono spesso anticipati dalle parole dei protagonisti, in una continua concatenazione di rimandi. Il professore di criminologia Richard Wanley (un Edward G. Robinson misurato e straordinario) che apre il lungometraggio parlando, in una lezione, dell’omicidio per legittima difesa, situazione in cui si vedrà poi precipitato, è solo il primo di numerosissimi esempi. Il passaggio cruciale del film è scherzosamente previsto in un dialogo tra vecchi amici, lo stesso Wanley, il procuratore Lalor (Raymond Massey) e il dottor Barkstane (Edmund Breon): i tre si recano al club e conversano sull’eventualità che, proprio al professore, possa capitare di incontrare la ragazza che ha posato come modella per il quadro posto in una vetrina lì vicino e che darà il via a tutta la vicenda. 

La scena del quadro in vetrina, con l’apparizione di Alice Reed (una deliziosissima Joan Bennett in uno dei ruoli più significativi in carriera), riflessa sul vetro, riesce a combinare in modo assolutamente perfetto, e degno della precisione stilistica di Lang, il rigore formale del racconto con un’atmosfera onirica che raggiunge qui uno dei suoi momenti più evidenti sebbene, di fatto, non lasci mai veramente la pellicola. La messa in scena del grande maestro di origine austriaca è infatti calibrata in modo sopraffino tra un fedele realismo fotografico e la diffusa impressione di trovarsi in situazioni palesemente ricostruite, in particolar modo nelle scene in esterni cittadine. Naturalmente l’idea che il tutto possa essere un sogno è scongiurata dalla sapiente capacità narrativa di Lang che, quando afferra il racconto, non concede spazi di distrazione allo spettatore; oltretutto, l’impressione onirica più accentuata delle prime fasi del racconto è giustificata narrativamente dal fatto che al club il professore avesse alzato un po’ il gomito. Ma le dissolvenze incrociate tra le scene, le performance attoriali di Robinson, abilissimo nel suo accettare in modo incerto le proposte di Alice, con la Bennet anch’essa superlativa nello stemperare la vena piccante in un atteggiamento sornione e divertito, la città deserta, magicamente illustrata dalla fotografia in bianco e nero di Milton R. Krasner, tutto sembra davvero concorrere a raccontarci una serata da sogno. 


Del resto quando mai può capitare che una ragazza del calibro di Joan Bennet possa invitare a bere qualcosa, e poi addirittura nel suo appartamento, un uomo come Robinson? In un sogno, certo; ma che la storia trasforma presto in un incubo e che Lang è ancora una volta magistrale nel mettere in scena. Ora la vena onirica ha preso una piega sinistra e le ripetizioni narrate dei fatti, che continuano imperterrite, non sono più solo anticipatorie ma anche rivolte al passato, come nella scena del sopralluogo con il procuratore Lalor che si fa accompagnare sul luogo del ritrovamento del cadavere dal povero professore. I tasselli vanno implacabilmente al loro posto, dalla ferita sulla mano alla presenza delle ortiche, oltre a tutto il resto che sembra inchiodare Wanley alle proprie responsabilità. 

Figurativamente, questo gioco ad incastri è messo in scena in modo ossessivo da Lang, con una infinita serie di cornici, specchi, fotografie, camini, infissi, doppie porte ravvicinate: quello raccontato è un mondo chiuso dai quattro lati, dal quale non sembra possibile fuggire. Il lavoro dell’autore fu capillare, in questo senso; si tratta probabilmente di un caso ma persino la fotobusta dell’edizione italiana del film, che uscì anche in un’insolita dimensione quadrata (in luogo della più classica rettangolare), sembra rimarcare che non c’è nemmeno l’illusione, figurativamente offerta dal lato più lungo, di poter scappare. Anche gli specchi, e le immagini che vi si rimpallano, in particolare quella di Alice, diafana dark lady dal cuore fin troppo tenero (essendo la proiezione di un’anima buona come Wanley), ma anche quella di Tim (Dan Dureya), contribuiscono a creare un’impressione di impossibilità di fuga. Oltre a questo lavoro, la figura di Alice si raddoppia in quella del quadro, ma ne rimane anche imprigionata; dal canto loro anche Tim, e perfino la vittima, con le loro doppie personalità, danno un efficace contributo alla chiusura su sé stessa della storia. 


Lang disse che lo stratagemma dei personaggi del sogno, che sono gli stessi della vita reale, l’avesse già usato al tempo in cui lavorò a Il Cabinetto del Dottor Caligari (1920, Robert Wiene). Sul momento, a suo dire, non se ne ricordava, e gli sembrò, piuttosto, un modo efficace per far accettare l'altro escamotage narrativo, quello del sogno, diversamente troppo risaputo. Sia come sia, anche l’idea di attingere dalla stessa realtà narrativa la soluzione di una debolezza tecnica (l’escamotage obsoleto) contribuisce all’impressione generale di impossibilità di uscire dal circolo, dalla cornice dentro la quale si è chiusi. Del resto nel finale si ripete la scena che ha dato via all’intrigo, a certificare una struttura che ritorna sempre al punto di partenza, senza sbocchi. Insomma, il quadro di una storia che, per quanto sdrammatizzata dall’ironico finale, lascia una fortissima sensazione di mancanza di via di uscita. Tanto che, per risolverla, bisogna ricorrere ad un trucco narrativo abusato come quello onirico, verrebbe da dire. Ma, in realtà, il fatto che si tratti del frutto del sonno di un uomo, negli Stati Uniti degli anni quaranta, insinua un altro dubbio. Ovvero che quella mostrata ne La Donna del Ritratto sia semmai la vera natura del Sogno Americano. Una vana illusione che, oltretutto, può mutare rapidamente in modo sinistro, ma che non è comunque sufficiente a scardinare i confini della realtà quotidiana. Joan Bennet è quel sogno e per l’uomo qualunque rimane tale; e, nel caso, c’è da stare pure attenti a sognarla. 







Joan Bennett

















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