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sabato 26 dicembre 2020

IL CIELO PUO' ATTENDERE

702_IL CIELO PUO' ATTENDERE (Heaven can wait). Stati Uniti; 1943. Regia di Ernst Lubitsch.

Stando a quanto diceva George Cukor, “Mr. Lubitsch ha il potere di rigirare qualsiasi scena desideri ogniqualvolta, a sua propria discrezione e senza interferenze da parte di nessuno; potere, questo, che non ha nessun altro regista di mia conoscenza impiegato alla Paramount.” Parole che sembrano celare malamente una certa invidia, forse legata anche ai trascorsi tra i due autori ai tempi di Un’ora d’amore (1932), ma che tratteggiano in modo adeguato l’autonomia lavorativa di cui godeva Lubitsch. I tempi della Paramount, nel 1943 in cui uscì Il cielo può attendere, erano finiti, per il regista nato a Berlino, e il film fu prodotto dalla Twentieth Century Fox; secondo lo stesso Lubitsch, allo studio non erano convintissimi delle sue scelte registiche, a proposito dell’opera ma, in fin della fiera, il formidabile autore riuscì a portare sullo schermo quello che aveva in mente a dispetto delle convinzioni e dei tentativi di interferenza esterni. E già questo è un aspetto considerevole, della cifra autoriale di Lubitsch: la capacità insuperata di riuscire ad arrivare al proprio obiettivo. Quando guardiamo un film di Ernst Lubitsch, sappiamo che l’autore non si prende alcun alibi; e questo è un atto di coraggio non da poco per un regista che amava lasciare sempre qualcosa di indefinito e indefinibile, nelle sue opere. Se l’esempio più evidente di questa capacità ne è proprio l’essenza, il celeberrimo e inimitabile Lubitsch Touch, (legato ad una magica formula ormai scomparsa col suo creatore, parole di Billy Wilder, forse il più autorevole erede di Lubitsch), ne Il cielo può attendere pare fosse il significato del film stesso. 

Alla Twentieth Century Fox infatti si chiedevano, e chiedevano al regista, che senso potesse avere una storia di un tizio che pensava solo a fare la bella vita e, sostanzialmente, non combinava niente di nobile o memorabile. Il punto era che il messaggio, il fatidico senso che spesso è ricercato nei film come un sigillo da esibire, era stato eliminato da Lubitsch in un’azione di spoliazione che aveva portato Il cielo può attendere ad essere privo dei soliti codici e formule prestabiliti dall’industria cinematografica. In fondo anche l’azione eroica dei protagonisti dei film di avventure è un cliché narrativo, un qualcosa per appassionare lo spettatore, anche se è, effettivamente, una nobilitazione in chiave educativa del media cinema. Il cielo può attendere, quasi che Lubitsch a soli 51 anni si rendesse conto di essere vicino al capolinea (morirà a 55), non ostenta però pretese o ambizioni didattiche e semmai è una sorta di bilancio, un’analisi sulle convinzioni dell’epoca nella società americana. 


Questo controverso rapporto con l’America era comune a molti registi di origine europea che erano là emigrati nel XX secolo; sul momento gli Stati Uniti erano in genere sembrati un paese moderno, vitale, progressista ma, alla lunga, qualche magagna era venuta fuori. Lubitsch non è particolarmente duro con le critiche, non gli sarebbe naturale, ma non per questo è meno graffiante. La borghesia aristocratica americana è dipinta senza sconti e presa in giro da più di un punto di vista. I Van Cleve, famiglia bene newyorchese al centro della scena, in generale non brilla certo per acume e gli unici a salvarsi sono i due scapestrati di casa: il giovane Enrico (Don Ameche) e suo nonno Hugo (Charles Coburn). Oltre allo sfarzo ricercato che circonda ogni dettaglio di casa Van Cleve, che fa di tutto per ricordare un’aristocratica residenza europea dei secoli andati, mamma Bertha (Spring Byington) assume una cameriera francese (Signe Hasso) per essere all’ultima moda. 

Un dettaglio, uno dei tocchi di Lubisch, per dirci che la classe egemone americana guardava il Vecchio Mondo per sentirsi aggiornata. Ma cosa ci si poteva aspettare da una donna, Bertha, che quando appare sullo schermo sembra l’immagine riflessa di sua madre (Clara Blandick), un’altra veloce pennellata del maestro per suggerire che non si tratta di persone che stiano in qualche modo evolvendosi. Ben più acida, ma nel proseguo tutto sommato stemperata con grandissima maestria, la rappresentazione dell’altra famiglia protagonista sullo schermo, gli Strabel. Allevatori di vacche del west, gli Strabel simboleggiano la vera anima americana, la famiglia di coloni, e sono semplicemente più pacchiani e rozzi dei loro connazionali newyorchesi. 

Eugene Pallette è straordinario nei panni del vecchio Strabel e Majorie Main non è da meno nel ruolo della sua bigotta e rinsecchita moglie: con l’ennesimo tocco, Lubitsch ci propone, come figlia di una simile coppia, composta da due persone fisicamente sgradevoli in modo opposto, la sublime Gene Tierney, ovvero Martha, futura moglie di Enrico. Gene quando appare nell’elegante vestito lilla riesce ad essere la quintessenza della bellezza e, inoltre, il suo stato civile finale e completo, Martha Strabel Van Cleve, è un vero moto di ottimismo. La protagonista del film riesce a convertire in bellezza le brutture di casa, eredità di mamma e papà Strabel, ma sarà in grado anche di redimere, semplicemente con il suo irresistibile fascino, anche le intemperanze morali di Enrico. Lubitsch, in questo senso, prova anche a depistare la questione dall’aspetto estetico (probabilmente, senza troppa convinzione, per la verità): la Tierney è favolosa nelle scene iniziali e poi, quando viene mostrata invecchiata, ha un’assurda acconciatura che, sebbene non riesca a scalfirne minimamente la bellezza, certamente non aiuta ad esaltarla, forse appunto volendo sottolineare che l’amore di Enrico per la donna non è solo legato al suo aspetto estremamente gradevole. 


Un po’ come se Lubitsch volesse far passare il concetto che Martha non è più nel fiore degli anni ma non se la sentisse di rischiare di imbruttire al trucco la Tierney. Tutto questo è però visto in flashback, perché l’incipit del film vede Enrico presentarsi al cospetto di Sua Eccellenza (Laird Cregar) una volta che il nostro protagonista è trapassato. L’impostazione che Lubitsch dà a questo fantastico e bizzarro inizio di storia non è certo credibile, l’Inferno che ci viene presentato ha un che di sobrio kitsch che, volendo, è un’ulteriore dimostrazione della raffinata capacità dell’autore di trovare sempre la combinazione giusta per l’occasione. Tuttavia l’idea del flashback è doppiamente funzionale: in primo luogo perché esplicita l’idea di una sorta di bilancio, con la vita di Enrico (e la filosofia di vita di Lubitsch) ad essere messa sotto esame da Lucifero in persona, ma soprattutto perché predispone a dovere la storia per esprimere al meglio la cifra stilistica dell’autore. Non solo il film è svuotato dai classici codici narrativi (in primis, la mancanza di azioni eroiche) ma i momenti cruciali sono tenuti fuori campo e, già a partire dall’idea di flashback, fuori tempo. La scena magistrale, in questo senso, è la morte del protagonista. 


Ormai vedovo, Enrico è allettato gravemente malato e si è assopito quando viene svegliato da una infermiera non proprio avvenente. Nell’aprire gli occhi, per Enrico, lo scorno è doppio: stava sognando di essere all’ultimo viaggio ma incontro, immersa in un mare di whiskey, gli si presentava una bionda deliziosa con cui l’uomo poteva ballare un valzer della Vedova Allegra finale. Piccola parentesi: in fondo, nonostante le arie da divertito dongiovanni, Enrico, con un semplice ballo, non tradirà Martha nemmeno da vedovo e nemmeno in sogno. Ora l’infermiera bruttina se ne va, fermandosi davanti allo specchio del corridoio per verificare se davvero è tanto poco attraente; certo lo è meno, e di molto, della sua giovane sostituta che deve occuparsi del turno di notte al letto dell’anziano malato. La bellissima bionda entra nella camera di Enrico, la macchina da presa rimane fuori dalla porta, che si chiude. 

Si comincia a sentire il Valzer della Vedova Allegra, prima debolmente ma poi sempre più forte: la macchina da presa, quasi con riserbo, arretra, poi scende al piano di sotto; dissolvenza. E’ l’ultimo viaggio di Enrico Van Cleef, quello con la bionda e il valzer. Ecco, quello che succede lo dobbiamo intuire, anche se Lubitsch ci offre tutte le possibilità, in questo caso in modo quasi didattico, in tema prettamente cinematografico, quasi a smentire la sua pretesa leggerezza e mancanza di scopi concreti. Se in questo passaggio (del resto rilevante nell’economia della storia visto che è quello in cui spira il protagonista e chiude quindi il flashback) è evidente lo stile dell’autore, lo stesso metodo è al centro del discorso su cui la vicenda gira senza mai andare a bersaglio. 

Lubitsch ricercava proprio nella complicità dello spettatore quella magia che in molti si sono chiesti da dove venisse attinta e l’idea di far lavorare l’immaginazione di chi guardava i suoi film era alla base di non mettere in scena direttamente il fulcro dell’azione. Così quello che viene contestato a Enrico, essere un dongiovanni seduttore, non è mai di fatto provato dalle immagini: nemmeno nel passaggio in cui Martha scopre uno scontrino galeotto del gioielliere. Infatti la prova che suo marito faceva regali all’amante è innanzitutto sminuita dalla differenza dei due articoli che lo scontrino riporta, quello economico per la presunta amante e quello assai costoso per l’adorata moglie e poi, su saggio consiglio di nonno Hugo, la questione non è approfondita. Insomma, Lubitsch non tenta di negare una certa leggerezza di Enrico, la stessa con cui cerca di spacciare i suoi film, ma al tempo stesso ne rivendica una sorta di innocenza (certificata, nel film, da Sua Eccellenza in persona). Una leggerezza, quella che può avere un semplice tocco, che è il modo più sereno per affrontare la vita. E, quindi, anche la morte. 











Signe Hasso


Gene Tierney








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