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domenica 6 dicembre 2020

LA CITTA' NUDA

682_LA CITTA' NUDA (The Naked City). Stati Uniti1948. Regia di Jules Dassin.

La scelta del produttore Mark Hellinger, presa in autonomia dal regista Julie Dassin, di introdurre una voce fuori campo, fu solo la ciliegina sulla torta dell’operazione cinematografica ardita e funzionale intitolata La città nuda. Il tipo di commento, opera nell’originale dello stesso Hellinger, alimenta infatti ulteriormente la sensazione di essere di fronte a qualcosa di diverso dal classico film noir del periodo. In effetti, quello di Dassin, è un film che non si limita a mettere a nudo la città per eccellenza (New York) ma, al contempo, rivela i dietro le quinte del genere che, per antonomasia, ne incarnò l’essenza sul grande schermo. La città nuda, titolo quanto mai azzeccato, si presenta subito in modo anticonvenzionale, senza i titoli di testa che vengono appunto elencati dal commento fuori campo; le scene della metropoli, che la voce ci dice essere momenti di vita quotidiana della città, furono davvero riprese localmente per le strade di New York. Questo aspetto realistico dell’opera colpì a tal livello gli spettatori del tempo che ci fu chi parlò di influenza del Neorealismo italiano sul lavoro di Dassin; un’osservazione anche condivisibile, almeno da un certo punto di vista. A questi aspetti inconsueti, l’intro privo dei soliti titoli di presentazione, una generale sensazione di realismo nelle scene, suffragata dal commento fuori campo che ricordava un cinegiornale dell’epoca se non proprio un documentario, si aggiungevano però due aspetti prettamente codificati nel genere noir poliziesco: l’efficace musica di Miklòs Rozsa che non molla mai la presa e la splendida fotografia di William Daniels ad illustrare una città che riesce ad essere al contempo credibilmente  realistica ma anche perfetto teatro per una classica storia gialla metropolitana. Un po’ come a dire che quello che si stava osservando era sì un classico film noir del periodo ma che si voleva andare oltre la solita facciata, con uno sguardo più critico e realista. 


Questa chiave di lettura è confermata dal tipo di storia che Dassin va a poi raccontare: si parte da un delitto, e questo non è certo un aspetto inconsueto, per la verità. La prima cosa sorprendente è piuttosto che a rimanere uccisa è la dark lady della situazione, tal Jean Dexter, che non comparirà mai sullo schermo. Lo sviluppo rivelerà il classico comportamento da femme fatale della ragazza, la sua propensione a prendere quelle scorciatoie che l’aspetto avvenente le propone, ma la sua anima buona, caratteristica tipica delle bad girls del cinema noir, è certificata dalla reazione dei suoi genitori al momento del riconoscimento del corpo alla morgue. Anche la madre, che si palesa furente con la figlia perduta, quando ne vede il cadavere, si scioglie a testimonianza sì che l’amore materno supera ogni cosa ma anche che qualcosa di buono la ragazza doveva averlo. Anche il classico protagonista del cinema noir è osservato da un punto di vista diverso dal solito: Frank Niles (Howard Duff) ha il physique du role per stare al centro della scena ma la storia le riserva il ruolo di indagato principale. Non è un tizio cattivo, Frank, anzi ha le stimmate dell’eroe, si veda la scena nella quale evita il suicidio del dottor Stoneman (House Jameson) ma la sua propensione a raccontar frottole sembra la certificazione di quanto siano falsi i tipici protagonisti dei film di genere hollywoodiano. Per il resto la vicenda è una trama gialla che si dipana poco a poco, con un intrico che, sul momento, sembra non essere poi molto più chiaro di altri esempi del periodo, a testimonianza delle difficoltà che la vita presentava. 

C’è anche in questo caso una certa critica alla sistematica attitudine a scaricare sulle difficoltà contingenti le scelte individuali, con Frank che racconta di essere un reduce della II Guerra Mondiale ma che si scoprirà non esserlo. A reggere le fila del racconto sono il vecchio investigatore Muldoon (Barry Fitzgerald) e il suo sottoposto, il giovane Halloran (Don Taylor), con il primo che, dall’alto della sua esperienza, si premunisce di definire la ricerca del colpevole come una sorta di pretesto narrativo, in modo praticamente esplicito. La storia, nonostante queste divagazioni ora metalinguistiche ora realistiche, funziona alla grande, sia per l’intreccio che per la validità dei personaggi. Come il cattivo, Willy Armonica Garzah a cui Ted de Corsia regala una figura memorabile; per la verità, manca una sponda femminile, a tutta quanta la faccenda, essendo la dark lady spirata proprio in avvio. C’è però la collega della Drexter, che era una modella, e che si presenta sotto le notevoli sembianze di Dorothy Hart; la sua Ruth, è la fidanzata ufficiale di Frank e quindi il ruolo di donna tradita ne intacca un po’ il prestigio. Ma è un dettaglio, la storia gira in modo notevole fino al concitato finale nel quale la rete degli investigatori si stringe su Garzah: i tralicci del Ponte di Brooklyn lo intrappolano come in una ragnatela, la grande città non dà scampo nemmeno ai criminali. Dassin, oltre la città mette quindi a nudo anche il noir: ma come la metropoli il genere resiste alla grande alla sua analisi.   





 

Dorothy Hart






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