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sabato 12 dicembre 2020

PIETA'

688_PIETA' (피에타). Corea del Sud; 2012. Regia di Kim Ki-duk.

La Corea del Sud è un enorme laboratorio a cielo aperto. E’ lì che si possono osservare certe reazioni sociali che sono probabilmente comuni a tutto il resto del mondo industrializzato ma che in genere sono maggiormente dissimulate. Forse è il contesto storico sociale del paese asiatico che ha reso la globalizzazione più brutale rispetto ad altri lidi e i risultati del forzato innesto su un tessuto tradizionale delle teorie economiche dominanti sono qui più evidenti. Ed è allora per questo che, per avere qualche risposta sui nostri problemi, ci viene utile guardare al cinema coreano più che altrove; ed è proprio per questo che film come lo splendido Pietà del formidabile Kim Ki-duk hanno un simile riscontro a livello mondiale. Il Leone d’oro di Venezia 2012 è quasi un film di genere, una versione alternativa e folgorante dei soliti revenge movie: per questo alcune semplificazioni psicologiche, ad esempio la relativa velocità con cui un delinquente come Gan-do (uno strepitoso Lee Jung-jin) si affeziona alla presunta madre, sono facilmente perdonabili al soggetto. Ci sono infatti alcuni elementi che Kim Ki-duk mette in campo che sono estremamente interessanti: per esempio già il fatto che Jang Mi-seon (la deliziosa Cho Min-soo), la donna che si presenta come madre di Gan-do, finisca per rubargli la scena e riesca a darci un’interpretazione per una volta tridimensionale di quello che da noi definiamo cuore di mamma (con un’accezione ottusamente e acriticamente positiva a prescindere). Gan-do è un volgare criminale, uno scagnozzo di infima specie che prima si presenta come diavolo tentatore, offrendo denaro in prestito ai disperati lavoratori autonomi dei sobborghi coreani, poi si trasforma in un demone persecutore capace di storpiare i creditori per incassare l’assicurazione contro gli infortuni. 

In questa impostazione c’è già una critica al sistema economico: non è certo approfondita, visto la stilizzazione funzionale dell’opera, ma è intrinseca a quanto mostrato. I tanti lavoratori autonomi che si vedono sullo schermo sono il risultato del mito di riuscire ad arricchirsi e del resto è il potere che il denaro offre e promette ad essere la leva che spinge questi disperati ad accettare prestiti con interessi ben peggio che da usura. In questo spazio si muove Gan-do, che offre prestiti e poi torna ad intascare i crediti centuplicati e impossibili da evadere; è una figura spregevole, è evidente, ma è anche un simbolo del capitalismo sfrenato perché, tralasciando certi eccessi, la sua filosofia di base è comune a tanti squali che popolano il mondo industrializzato. L’intervento di Jang Mi-seon, che sostiene di essere sua madre che lo abbandonò neonato, sembra dare la risposta alla disumanità di Gan-do: il ragazzo non ha ricevuto l’amore materno e quindi è diventato un brutale esecutore nelle mani di potenti speculatori. E’ una risposta banale e infatti non è qui che si concentra in fuoco di Kim Ki-duk; sì, d’accordo, Gan-do, una volta accettato l’idea che Mi-seon sia sua madre, le si affeziona e si preoccupa per lei. 

E, di conseguenza, comincia anche a comprendere le ragioni delle sue vittime, come il lavoratore appassionato di chitarra a cui risparmia il taglio delle mani. Ma, mentre Gan-do se ne va dall’officina, forse soddisfatto per non aver inflitto una simile condanna, si ode un terribile grido: il chitarrista si è tranciato da solo una mano, per avere il premio assicurativo e poter sostenere il figlio in arrivo. In sostanza, Kim Ki-duk ci dice che non è Gan-do ad essere il problema, lui è solo un ingranaggio e anche un suo ravvedimento non cambia lo stato delle cose: l’appassionato di chitarra non suonerà comunque il suo strumento per il figlio in arrivo. 

Come detto, il punto focale è un altro: è Mi-seon e il suo amore incondizionato per il figlio, gli schiaffi che rifila al tizio che al parco aveva solo scherzato un poco e che Gan-do aveva invece trattato con brutale violenza. Anche se si tratta di una farsa, con la donna che finge di comportarsi come fosse la madre del criminale, viene comunque da porsi una domanda: come può una persona, finanche ne sia la madre, sostenere le scelte e il comportamento di un’altra che si comporta in modo talmente orrendo? E già qui vengono in mente le decine di madri che vediamo quotidianamente intervistate nei telegiornali prendere le difese dei figli che si sono macchiati dei peggiori crimini. In Italia, ad esempio, un tema sempre attuale sono i cosiddetti femminicidi: ma perché non ci si orienta mai a riflettere sul fatto che l’uomo (inteso come genere) è un mammifero e che la madre è l’elemento che maggiormente (e in modo enorme) influenza la personalità di ogni individuo? Società, cultura, ambiente, concorrono, certo, ma in misura infinitesimale: la madre, anche solo per via del contatto che si stabilisce tramite l’allattamento, per esempio, ha un potere formativo sull’individuo quasi totale. La figura paterna subentra giocoforza dopo, quando l’incipit cruciale e determinante è già stato impresso. Concetti dozzinali, probabilmente, ma del tutto trascurati quando si cerca di capire la matrice della violenza che anima la nostra società e su cui invece varrebbe la pena di riflettere. 


Come fa Kim Ki-duk con Pietà. Il quale, da autore geniale qual è, si spinge anche oltre. Si diceva: Gan-do è certamente un volgare criminale ma non è un elemento cruciale, è solo la rotella di un ingranaggio. A renderlo così ha concorso la mancanza di affetto materno, certo, ma è forse quell’affetto ad essere il vero ago della bilancia della questione e questo significa nei due sensi. Perché la vendetta di Mi-seon, il suo riuscire ad umanizzare il carnefice del suo vero figlio, spacciandosi per sua madre, per poi sottrarsi a lui una volta che Gan-do le si è affezionato, è più crudele di ogni malefatta del balordo. 

Non è un moto positivo e la donna se ne rende conto, nella tristezza che la fa vacillare nel momento in cui si sta suicidando inscenando una vendetta da parte di uno dei maltrattati da Gan-do. Nel dubbio, che a livello narrativo (si tratta pur sempre di un revenge movie, si è detto) Kim ki-duk imbastisce, e che ci induce a pensare che la donna possa ravvedersi, il regista prepara però una eventuale contromossa: c’è davvero la madre di una delle vittime di Gan-do in agguato, pronta a scaraventare giù di sotto Mi-seon, colpevole solo di essere la genitrice dell’aguzzino di suo figlio. Insomma, comunque vada, l’amore materno questa volta darà frutti amari: ma niente può sottrarre la vendetta ad una madre e, siccome la protagonista della nostra storia in realtà è Mi-seon, alla madre in agguato non resta che godere del risultato finale, che in fondo per lei non cambia nella sostanza. Gan-do è infatti distrutto dalla perdita della madre a tal punto che si rifiuta di accettare la realtà (Mi-seon non è sua madre ma lo è di una delle sue vittime) e, per espiazione, si fa ammazzare da un’altra donna (Kang Eun-jin). Questa non è la madre ma la moglie di Hoon-chul (Woo Ki-hong), l’ennesimo uomo storpiato da Gan-do. La donna aveva professato il proposito di investire con l’automobile l’aguzzino e questi, in modo discreto, cerca di dare sfogo alla propria disperazione soddisfacendo il desiderio della donna. Riassumendo: a mettere in moto la vicenda è il mancato amore materno e la vendetta raggiunge il suo acme per mano di una madre. Ma la chiusura spetta ad una persona inconsapevole e che madre non è, ma è comunque una donna. Pietà, quella che in definitiva manca nel film, sarà forse un caso ma, almeno in italiano, è un sostantivo femminile. Certo; come vendetta e, soprattutto, violenza.        

Gang Eun-jin



Cho Min-soo












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