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domenica 22 dicembre 2019

FURY

479_FURY ; Stati Uniti, 2014Regia di David Ayer.

Può, un film, svoltare completamente grazie ad una singola sequenza? Il film Fury lo fa: come un feroce contropiede manda il goal la squadra arroccata nella sua area, la pellicola di David Ayer ribalta completamente l’apparente prospettiva generale dell’opera, guarda caso in quella che è la scena salvifica anche per uno dei protagonisti. Ma non si tratta di una genialata estemporanea o di uno sterile colpo di teatro ad effetto: la scena arriva al culmine di una lunga sequenza di grande impatto visivo, per la quale il pensare alla solita retorica eroico-imperialista americana era, volendo, anche più che lecito ma che, alla luce di questo passaggio decisivo, risulta invece unicamente preparatoria a quest’ultimo.
In realtà, alcuni indizi erano già presenti nel film, ma la narrazione forte, sporca, cruda, sembrava lasciare pochi dubbi: la questione era sempre quella, come sosteneva il grande Fritz Lang, in realtà non ci sono buoni, ma solo cattivi e più cattivi. Quelli che noi crediamo siano i buoni delle storie, quindi, non sono buoni veramente, ma non sono altro che i meno cattivi. E i nazisti erano davvero i peggiori, i più cattivi; ovvero i cattivi, una volta fatta l’equivalenza atta a ridarci un minimo di speranza, in modo da poter avere quelli da poter definire i buoni per cui fare il tifo. Fatta questa premessa sulla impostazione della vicenda, passiamo oltre con ordine. Nella prima corposa parte, il film ci mostra, con competenza anche tecnica (almeno a sensazione), la guerra e la sua brutalità. Sebbene ci siano già alcuni passaggi, sicuramente forzati, che lasciano intendere il carattere astratto e simbolico della pellicola: la scena nella città tedesca con le due donne ma soprattutto la stessa composizione dell’equipaggio (il cavaliere, la bestia, il religioso, l’esponente della minoranza etnica e l’uomo normale), in modo da ricordare questo aspetto per tutta la durata del film. Il cowboy è Don Colleir, ossia, naturalmente, Brad Pitt, qui nella veste di cavaliere senza cavallo ma alla guida dell’equipaggio del tank. A proposito di cavalli, all’inizio del film, Collier aggredisce, disarciona e uccide un soldato tedesco a cavallo. Ma non uccide l’animale; anzi, lo accarezza e lo saluta, come ci si aspetta faccia un nobile cavaliere, di quelli senza macchia e senza paura. Ma, più avanti nella pellicola, si saprà che in realtà la cavalleria tedesca, cavalli compresi, è stata sterminata e proprio dai carristi guidati da Collier. 


Una pietosa bugia iniziale, quindi; una sorta di tributo alla memoria della cavalleria, intesa anche come nobiltà dei combattenti, che lascia il posto alla meccanizzazione della guerra moderna ed industriale. Infatti, nella pellicola che segue, l’importanza della componente tecnica è mostrata in modo esemplare, ad esempio nel combattimento col Tiger, il mezzo armato d’eccellenza tedesco, che sovrasta totalmente con la sua potenza e resistenza gli Sherman americani.
La seconda fase del film è sicuramente meno realistica, e il regista preme sul pedale dell’acceleratore retorico propagandistico, con il manipolo di americani che si innalza a  rango di eroi, ma la forma estetica della pellicola è chiaramente enfatizzata, astratta, simbolica, in netta discontinuità con la crudezza precedente. 

Alla fine di questa comunque godibile fase di guerra, ipnotica, surreale e psichedelica, arriva la scena cruciale, quella che smentisce il fatto che ci sia una qualche possibilità di fare un distinguo anche solo tra cattivi e meno cattivi. Per cui, nessuna chance  di crearsi un artificioso buoni vs cattivi, come capisce anche Norman quando, da sotto il carro, guarda negli occhi il suo riflesso, il suo alter-ego in divisa da SS.    
Il film, fortemente claustrofobico, esalta gli aspetti meccanici della guerra, le operazioni di carica, di puntamento, di sparo; il tutto come in catena di montaggio, come al lavoro e, infatti, al giovane Norman viene intimato di fare il proprio, di lavoro; inteso come fare il dovere di addetto alla mitragliatrice.

Il vero protagonista del film è proprio il novellino Norman, (Logan Lerman) ovvero l’uomo normale, come appunto si capisce già dal nome e che, in seguito al processo di disumanizzazione della guerra, prenderà giustamente il soprannome di Macchina. Questa disumanizzazione avviene però, e qui sta’ una peculiarità importante del film, non tanto per via delle atrocità della guerra, almeno non solo. E’ soprattutto la meccanizzazione estrema che l’equipaggio deve assumere per far funzionare il carro, a disumanizzare l’uomo. Ma non è nemmeno tanto la concitazione sincronizzata dell’attività di lavoro del carro durante le fasi belliche, a produrre questa metamorfosi; è un concetto più ampio, è il vivere in totale simbiosi sia con il carro armato che con l’equipaggio.

Infatti a Norman il nome di Macchina viene attribuito per l’estrema ottimizzazione delle funzioni generali mangia + scopa + uccidi (ovvero: fa’ il tuo dovere), e non solo per quelle militari. La guerra è vista nel film come acceleratore della vita moderna, la vita industriale; e la perdita di umanità è la stessa che si ha nella società contemporanea, solo resa in modo più crudo e violento. Il finale, con la sovrapposizione dell’oblò del carro con il finestrino dell’automobile che porta via Norman/Macchina, è eloquente. Il carro armato altro non è che la versione militare del simbolo del capitalismo per eccellenza, ovvero l’automobile. E, come ogni simbolo, il tank nell’ultima splendida inquadratura, si merita il posto di monumento in mezzo all’incrocio, una piazza che pullula di cadaveri come fossero marionette spezzate. Perché l'umanità l'avevano già persa.









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