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domenica 15 dicembre 2019

LO SPIONE

472_LO SPIONE (Le doulos); Francia, Italia 1962Regia di Jean-Pierre Melville.

Se si cerca in un dizionario francese/italiano, il termine doulos non lo si trova; eppure è nel titolo originale del film Lo spione, di Jean-Pierre Melville, un’opera in lingua d’oltralpe. Non lo si trova perché è un termine gergale, (per doulous si intende cappello, e lo si usa per indicare gli informatori della polizia) tipico di quell’argot (gergo, appunto) di cui è intriso l’omonimo libro della Serie Noir (polizieschi editi da Gallimard) di Pierre Lesou. Quello stesso argot che Melville ha, nella sua trasposizione cinematografica, eliminato minuziosamente dai dialoghi della sceneggiatura; lasciandolo però, nel titolo. C’è quindi, sin da subito, una piccola contraddizione, nel lavoro di Melville; un procedere in due direzioni opposte, lasciando le espressioni gergali nel titolo, ma poi evitando di ricorrervi nel lungometraggio. E non è un metodo casuale o uno stratagemma estemporaneo, ma un dettaglio di una più ampia strategia tesa a creare una particolare atmosfera, che il critico cinematografico Rui Nogueira chiama sortilegio, di cui Lo spione è intriso. Ad esempio, la storia è ambientata in Francia, ma tutti i dettagli, dalla cabina telefonica al bar, ai serramenti degli uffici, alle auto dei protagonisti, tutto quanto il décor urbano rimanda alle metropoli americane, ma è inserito senza strappi in una vicenda che conserva una sua identità transalpina. Ne risulta un’atmosfera strana, sfasata: credibile, contemporanea eppure non propriamente domestica. 

Ci si rende conto che quanto vediamo non appartiene alla nostra quotidiana realtà, la Francia di tutti i giorni non è quella mostrata da Melville, eppure sullo schermo abbiamo qualcosa non solo di assai plausibile ma, almeno in ambito cinematografico, di addirittura famigliare, per via del cinema americano. Magistrale, poi, la scena nell’ufficio del commissario Clain (Jean Desailly): oltre 9 minuti e mezzo senza stacchi all’interno di un locale che riproduce un tipico ufficio di polizia americano per l’interrogatorio a Silien (uno strepitoso e giovanissimo Jean Paul Belmondo). A parte le difficoltà tecniche, (con la mdp in costante movimento e la troupe costretta ai salti mortali per non rimanere catturata in qualche riflesso delle tante finestre del locale, senza contare i problemi legati alla recitazione per via della durata della scena), il punto nevralgico è che, praticamente, Melville mette anche noi nella stanza senza darci alcuna via di uscita (nessuno stacco, nessun fotogramma nero) perché è il momento chiave del film. E se questo è un film sulla menzogna (del resto bisogna scegliere…morire…o mentire? è la frase con cui Melville avverte i suoi spettatori all’inizio), quei 10 minuti scarsi senza tagli del formidabile piano-sequenza, sono un’oasi apparentemente senza bugie: se il cinema è l’arte della finzione, del falso, il cuore di esso si concretizza proprio nei tagli in sala di montaggio. 


Ma in realtà anche quella sequenza è un falso, in quanto cinema, evidentemente: infatti, se il continuo girare in tondo della macchina da presa di Melville sembra volerci dimostrare che non c’è nient’altro di quello che appare sullo schermo, è ovvio che gli operatori, dannandosi l’anima per non venire ripresi, nel locale ci sono eccome. E quindi questa sequenza simbolo ci da’ le esatte istruzioni dell’opera: dalle parole del commissario Clain apprendiamo molti dettagli dell’intrigo narrativo, ma poi, alla fin fine, la situazione mantiene fin troppe zone d’ombra. Del resto, simbolicamente, la lunga scena senza stacchi sembra voler dimostrare di essere credibile, ben sapendo che proprio l’ostentazione di ciò (sottolineata dalle continue svolte e panoramiche della mdp) evidenzia piuttosto una matrice ambigua (perché finge di mostrare tutta la stanza, ma opportunamente non coglie mai gli operatori).

Come evidenziato dalle parole del commissario nella ricostruzione dello scontro a fuoco che vede coinvolto l’ispettore Salignari, l’attenzione alla trama e ai suoi passaggi narrativi è ben congegnata, degna di un film americano di genere. Tutto lo sviluppo sembra dar credito alle informazioni che abbiamo avuto durante la sequenza nell’ufficio di Clain: Silien è lo spione, l’informatore della polizia. Del resto Silien è un tipo ambiguo, lo si può dedurre da come tratta le donne della vicenda: brutale e manesco con Thérèse, la moglie di Maurice, e scaltro e opportunista con Fabienne, con la quale non esita a sfruttare l’ascendente che ha su di lei per ottenere quanto gli serve. Quando poi sembra che abbia sistemato ogni cosa, e si sia impadronito del bottino in ballo ed eliminato i concorrenti, Silien si rivela invece un leale amico di Maurice, ribaltando completamente l’ottica di tutto il racconto filmico precedente. 

L’ambiguità con cui Melville aveva condotto le danze gli permette questo rovesciamento di prospettiva in modo plausibile. Il delicato gioco ad incastro narrativo soddisfa pienamente le esigenze narrative, ma Melville si è comunque ricavato un piccolissimo spazio per introdurre il classico granello di sabbia, che manda tragicamente all’aria i piani di Silien.
Alla fine, perderanno (la vita) tutti quanti.
Melville ci aveva avvisato: bisogna scegliere…morire…o mentire? E, a fronte dei possibili dubbi ancora aleggianti sulla trama, arriva anche la conferma della sincerità di Silien: quando ha smesso di mentire, è morto.
Meno male che il cinema non smette mai.


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