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domenica 1 dicembre 2019

ZODIAC

458_ZODIAC (Zodiac); Stati Uniti, 2007Regia di David Fincher.

Lo Zodiac protagonista del film di David Fincher è naturalmente uno dei più famosi serial killer statunitensi, che si firmava appunto così. Nella prima parte della pellicola, si può anche dire che ne sembri l’argomento principale, l’obiettivo su cui è puntata la macchina da presa del regista: l’identità del killer è tenuta nascosta, ma i tre personaggi principali girano intorno a lui. C’è il poliziotto Dave Toschi (Mark Ruffalo), c’è il giornalista Paul Avery (Robert Downey Jr.); ah, e poi c’è anche un vignettista, tale Robert Graysmith (Jake Gyllenhall), che sembra non aver nulla a che fare con la storia ma, curiosamente, è il primo dei tre ad entrare in scena. Ed è un indizio mica da ridere, perché è lui, il vero protagonista del film. Lui, il ritardato (come lo chiamano in ufficio), lui quello che è scadente nel fare il suo lavoro (semplici vignette, ma che non vengono nemmeno apprezzate), lui quello che si intestardisce per scoprire il codice con cui Zodiac scrive i suoi messaggi, ma viene battuto da una coppia di semplici appassionati di enigmistica. Poco più di un buono a nulla, in sostanza; cocciuto, però.
La vicenda reale di Zodiac, da cui prende spunto il film, è irrisolta: una questione simile a quella inglese di Jack lo squartatore o alla nostra del mostro di Firenze, che da sempre animano l’immaginazione di molti che si appassionano a cercare di scoprire le identità di questi serial-killer. Ma nella storia di Zodiac sembra ci sia una consapevolezza, se così si può dire, maggiore: il maniaco dà l’impressione che, volontariamente, non abbia un modus-operandi, per non offrire una traccia concreta alle indagini. 

Tant’è che basta un semplice dato per capire la nebulosità in cui si mossero gli inquirenti: 5 furono le vittime accertate, ben 37 quelle prese in considerazione. E’ evidente che il labile contorno nel metodo di lavoro del criminale permise a millantatori di ogni genere di essere potenzialmente credibili, rendendo ancora più arduo il lavoro di indagine. Certo ci furono inefficienze nell’organizzazione delle indagini tra le varie forze di polizia locali, come giustamente è mostrato nel film di Fincher. Ma, al di là di alcuni errori, non era affatto un caso semplice da risolvere, anche perché il killer dello zodiaco sembrava giocare consapevolmente con gli inquirenti; e, in una simile situazione, la gravità delle accuse implica quasi in automatico un maggiore scrupolo nell’identificazione del colpevole. 

Un errore di giudizio e la conseguente condanna di un innocente, per una serie di crimini tanto gravi, sarebbe infatti imperdonabile. Questi aspetti sono forse latenti, in Zodiac, il film di Fincher, ma al tempo stesso ne sono presupposti fondamentali; e sono anche quelli che Toschi cerca di far capire a Graysmith, il quale, ad un certo punto, decide di indagare personalmente e di scrivere un libro in proposito. Nel film la traccia poliziesca vede Toschi protagonista: il poliziotto ha ispirato Steve McQueen in Bullitt, e quindi c’è un esplicito richiamo al genere cinematografico. L’altro filone della settima arte che viene in parte richiamato (già dai caratteri di stampa dei titoli di testa e delle didascalie) nel film di Fincher è quello delle investigazioni giornalistiche, con Graysmith che si affianca ad Avery; sebbene la coppia non funzioni certo come quella Robert Redford & Dustin Hoffman in Tutti gli uomini del presidente

Non il poliziesco, non l’indagine giornalistica: Zodiac si fonda sulla ricerca dilettantistica, sull’analisi sorretta dall’ottusa costanza dell’uomo della strada che, senza titoli di studio o professionali che ne qualifichino il lavoro, insiste provando, in sostanza a casaccio, a stabilire le sue teorie. (Ricorda una pratica molto attuale e diffusa, in effetti). Addirittura surreale quando, insieme  ai figlioletti, coinvolti da lui nell’indagine in mancanza di altri collaboratori, nota una (assai presunta) coincidenza astrale, secondo la quale, Zodiac agirebbe in prossimità dei cicli lunari. In pratica ogni omicidio, vero o presunto, di Zodiac, ogni sua lettera o telefonata (vera o presunta) occorre all’incirca (un po’ prima o anche un po’ dopo) un cambio di fase. E, visti i 37 casi sospettati, a cui sommarsi le lettere e le telefonate, tenendo conto dei contorni labili della coincidenza astrale (da qualche giorno prima a qualche giorno dopo) si può concludere che sarebbe strano avere pochi riscontri. Ma questo è lo spirito dell’indagine di Graysmith: che, per guadagnare credito, rilascia interviste  nella veste di scopritore del nuovo codice usato da Zodiac; tanto ormai, della coppia di appassionati di enigmistica, che avevano già decifrato quello precedente, non si ricorda più nessuno. 

Tra periti calligrafici che assumono o perdono attendibilità a seconda della bisogna, e impronte digitali che non confermano i sospetti ma vengono ignorate, si arriva alla conclusione. Mano male che in mezzo c’è anche un passaggio cinematograficamente forte, quando il nostro eroe si reca nello scantinato di un possibile testimone, che per un attimo sembra invece poter essere addirittura il killer. Questo, nello specifico, è un buon passaggio, sebbene la mano del regista sembri solida in generale; soltanto il tema è troppo dispersivo. In ogni caso la fiammata è solo una divagazione e Graysmith può proseguire imperterrito; d’altronde l’aveva promesso alla moglie: si sarebbe fermato solo identificando Zodiac con certezza. 

E allora, ragionando da uomo semplice, Graysmith assembla tutte le coincidenze possibili e impossibili, e riesce ad essere convincente, persino con lo scettico Toschi. E la sua conclusione non può che essere che Zodiac è il sospettato principale: Leigh Allen. E le perizie calligrafiche? E le impronte digitali? Inezie, quando il nostro può guardare negli occhi Allen, il killer dello zodiaco.
Conclusione: un libro basato su un’indagine di questo tipo, diviene un best-seller.
E non importa nemmeno se in seguito un’analisi di un reperto di DNA non confermi questa tesi. Oggi il cittadino, l’uomo comune, vuole sapere, pretende di conoscere la verità, e non è interessato a come si costruisce una accusa seria e provata. 

Se ci sono forti indizi, perché tergiversare. E anche Fincher, quando tira fuori l’epilogo, sembra confermare questo nuovo modo di intendere il diritto.
O almeno così sembra.
In Canada, un poliziotto pone finalmente la fotografia di Leigh Allen ad uno dei testimoni sopravvissuti agli attacchi di Zodiac. Stai a vedere che Graysmith, il ritardato, ci ha preso (almeno secondo Fincher). Il testimone vede la foto di Allen e lo riconosce; o forse no… la forma del viso è quella di un altro sospettato… No, aspetta: ora si è convinto che sia certamente lui. 

Insomma, non sembra proprio una deposizione granitica, ma poi alla fin fine il testimone si dice sicuro ad un livello 8 su una scala di 10. Può bastare? Forse, ma chissà se Fincher si ricorda che questo testimone sicuro all’80%, è quello dell’inizio del film, quello che vede Zodiac in piena notte con una torcia elettrica pienamente puntata in faccia… ovvio che si, il film è il suo. Ma allora il regista che fa? Ritira la mano ancora prima di tirare il sasso? Si accontenta, deliberatamente, di convincere anche noi, con il suo film, all'ottanta percento? O, forse, come cantava Celentano, si limita ad un grazie, prego, grazie, scusi, tornerò.
Mah. 
Intanto il thriller non è più quello di Seven.


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