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giovedì 29 giugno 2023

LA CONFESSIONE DELLA SIGNORA DOYLE

1301_LA CONFESSIONE DELLA SIGNORA DOYLE (Clash by night)Stati Uniti,1952; Regia di Fritz Lang.

Clash by night è uno splendido documentario, opera del geniale regista Fritz Lang. Si, d’accordo, questa è un’affermazione vagamente provocatoria perché, stando alla comune classificazione, La confessione della Signora Doyle è un film drammatico sentimentale a tinte noir e non certo un documentario. Ma, a ben vedere, se la definizione di dramma è abitualmente talmente generica che può andare bene per quasi ogni cosa, non è che La confessione della Signora Doyle sia poi aderente al genere sentimentale e nemmeno al noir. Come film romantico manca una vera storia d’amore e poi la protagonista, la signora Marta Doyle (una stratosferica Barbara Stanwyck), ostenta troppo cinismo per reggere quel tipo di ruolo. Tutto sommato, forse siamo più nel campo del noir, dal momento che, tanto la regia del maestro Lang che la fotografia del grande Nicholas Musuraca, lì ci portano, in quel tipo di storia, almeno a livello d’ambientazione. E di personaggi: la Stanwyck è un’icona noir, così come Robert Ryan (è Fred, quello che diventerà l’amante della protagonista) e volendo vedere anche Marilyn Monroe (è Peggy) agli inizi della carriera era ricordata principalmente per Giungla d’asfalto (1950, regia di John Huston) e, quindi, rincarava la dose in tal senso. Tuttavia, per poter dirsi davvero un noir, a La confessione della Signora Doyle manca il passaggio forte, qualcosa che sprofondi il protagonista in una spirale disperata; in genere c’è un omicidio o comunque un crimine, a questo scopo. In questo film, Lang apparecchia per bene il momento, ma quando Jerry (Paul Douglas), marito di Marta, vuole torcere il collo all’amico Fred che se la intendeva con sua moglie, si ravvede proprio sul più bello. 

Non c’è quindi il momento più critico, quello necessario a poter definire La confessione della Signora Doyle davvero un noir. Anche il tema del racconto, un triangolo sentimentale con Marta contesa tra i due amiconi, suo marito, l’ingenuo Jeremy, e Fred, il furbacchione di turno, non verte sull’amore – il cardine dei film romantici – ma piuttosto sul desiderio – il sentimento principe dei noir che nel racconto ha anche una testimone d’eccezione, anzi la testimone d’eccezione, l’essenza stessa del desiderio, Marilyn Monroe. Eppure, nel lungometraggio c’è la più spietata e implacabile – del resto opera di Fritz Lang, insuperabile nell’acutezza delle sue analisi – definizione dell’amore. Marta, a cui la Stanwyck regala un altro passaggio intenso, toccante e memorabile, si sta congedando da Fred, mandando a monte la sua fuga con l’amante, quando i giochi erano ormai conclusi. 


L’uomo non se ne capacità, fino a poco prima, la donna sembrava follemente innamorata e disposta a tutto, pur di fuggire con lui. E, a quel punto, ecco la confessione della signora Doyle – e per una volta il titolo italiano azzecca il passaggio sublime: “non sono mai stata innamorata di nessuno” ammette tristemente amara la donna. E poi arriva al dunque: “solitudine, timore, dispetto, noia. Ecco quel che chiamiamo amore”. Sul momento la frase ci atterrisce ma un termine, più di altri, salta all’occhio e ci illumina la mente d’incanto: si ama per dispetto. Chi l’avrebbe mai detto; sono due concetti non solo in contrasto ma che non presentano alcuna connessione. Per dire, il dispetto non è l’odio; l’odio è l’opposto dell’amore e, almeno in senso di negazione, ha un rapporto con l’amore. Ma il dispetto? Il dispetto è più un capriccio, una ripicca, qualcosa di meschino, quasi infantile, una delle cose meno nobili che esistano, e non ha neanche la statura malvagia – dove, a suo modo, si può trovare una sua forma di dignità – dell’odio. Eppure questa rivelazione ci spalanca la verità davanti agli occhi: anche un canovaccio sentimentale torbido ma senza alcuna apparente logica, come quello de La confessione della Signora Doyle, assume allora un significato chiaro. Non è la virilità di Fred e nemmeno lo scarso fascino di Jerry, a spingere Marta a tradire il marito. Il punto è un altro e molto più profondo. 

Quando non riusciamo a trovare pace in noi stessi, perché la vita ci pone costantemente di fronte al rischio di sentirsi insoddisfatti, ecco che dobbiamo riversare su qualcuno il nostro risentimento, la nostra infelicità. Ma sappiamo bene essere una cosa poco nobile e quindi preferiamo agire di soppiatto, di sponda, di riflesso. Dobbiamo sfogare il nostro livore ma, vigliaccamente, lo camuffiamo d’amore, così da non sentirci in colpa: ecco perché ci si innamora di una persona, spesso palesemente sbagliata, con cui tradire e ferire colui che, secondo le nostre pretese, avrebbe dovuto renderci felici. Questa situazione è lampante nel finale, quando Marta tradisce il pover’uomo del marito, ma ce ne sono tracce anche in precedenza. Ovvero proprio quando la donna accetta di sposare Jerry, uomo che non ama e da cui non è attratta, e lo fa per non rischiare di accasarsi con Fred: conosce i bellimbusti come lui e l’hanno già delusa troppe volte. 

Di fatto, sposare un pacioccone come Jerry è nient’altro che un dispetto ad un fanfarone come Fred. Poi, quando la vita quotidiana matrimoniale finisce per annoiarla, e Jerry si rivela un partner assai poco stimolante, la donna si vendica rispolverando la passione per Fred, stavolta per fare un dispetto al marito. In pratica tutte le vicissitudini amorose del triangolo sono determinate dalla volontà di ferire più che dall’amore; volendo c’è anche la scorrettezza di Fred che non si fa alcun problema a corteggiare la moglie dell’amico spingendosi fino ad un passo dal sottrargliela. Il tema della bambina è inserito come monito, probabilmente: tutti questi discorsi sono validi al netto della presenza di eventuali e incolpevoli figli, la cui serenità è doveroso tutelare. Tuttavia l’argomento principale è quello che lega Marta ai due uomini e le capricciose motivazioni che ne determinano le scelte. Naturalmente si può pensare che sia piuttosto l’ingovernabilità dell’amore a guidare queste – come altre – peripezie sentimentali e, se si considera irrazionale il più nobile dei sentimenti, allora tutto questo discorso è superfluo. Ma La confessione della Signora Doyle si apre con lo stupefacente incipit ambientato a Monterey con i pescherecci che fanno rientro al porto, tra le foche e i gabbiani che accorrono felici, sapendo che qualche sardina ci scapperà anche per loro. Scene tipiche da documentario, altro che. E che dire delle fasi dell’inscatolamento del pesce, i nastri trasportatori, le catene di lavorazione e, ad un certo punto, ecco Marilyn tra le operaie. Vedendola, vedendone le forme, o anche solo i capelli biondi sbucare dalla cuffietta d’ordinanza, viene quasi spontaneo pensare: è possibile contenere, ingabbiare, il desiderio, proprio come si inscatola il pesce? E’ forse questo che fa la nostra società, la nostra civiltà, con le sue istituzioni, come il matrimonio? Ma è davvero possibile? Guardando la Monroe, ma anche le immagini di Lang e Musuraca con il mare rabbioso che ribolle sugli scogli o le nuvole cumulonembi che annunciano il temporale, verrebbe da dire di no. E allora eccole spiegate per bene le motivazioni, quelle motivazioni che bugiardamente spingono a tradire proprio la persona amata in nome dell’amore. Ma, con tutto questo, provocazione o meno, forse dovremmo davvero considerare La confessione della Signora Doyle un documentario. Non è il caso: è semplicemente il cinema di Fritz Lang.  








Barbara Stanwyck 




Marilyn Monroe 




Galleria di manifesti 










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