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mercoledì 7 giugno 2023

7° CAVALLERIA

1288_7° CAVALLERIA (7th Cavalry)Stati Uniti1956; Regia di Joseph H. Lewis.

La figura del colonnello Custer – a volte chiamato anche generale Custer – è stata spesso al centro di opere cinematografiche, la più nota delle quali per lungo tempo fu La storia del generale Custer di Raoul Walsh del 1941. Un bel film, quello di Walsh, con protagonista Errol Flynn nel ruolo principale che garantiva, già con la sola fama, un trattamento eroico per il militare. Fino a quei tempi, se ci atteniamo al cinema, quella era l’idea che veniva riferita a Custer ma le cose sarebbero in seguito cambiate. Prima di arrivare agli anni Settanta, quanto Artur Penn mise alla berlina Custer nel suo Il Piccolo Grande Uomo (1970), che ben incarnò l’opinione pubblica dilagante in quel periodo in cui si era affermata la convinzione che Capelli Gialli fosse unicamente un pazzo fanatico vanaglorioso, ci furono alcuni passaggi interlocutori. Si va da La trappola degli Indiani (1951, regia di Charles Marquis Warren) ancora legato all’ottica del film di Walsh, a L’ultima battaglia del Generale Custer (1958, di Lewis R. Foster), dove l’accento era posto maggiormente sui nativi. In mezzo, 7° Cavalleria di Joseph H. Lewis cercava un po’ di salvare capra e cavoli, senza per altro riuscire a tramutare gli intenti in un film davvero funzionante. Intendiamoci: 7° Cavalleria è un buon film, Lewis sa il fatto suo in regia, Randolph Scott è il solito solido protagonista e Barbara Hale e Jay C. Flippen, suoi comprimari, sono nomi di tutto rispetto. Ma l’intenzione del film sembrava più ambiziosa di un semplice B-movie in salsa western. Accanto alla trama portante che vede un giovane militare di belle speranze, il capitano Tom Benson – Scott aveva al tempo 58 anni ma si sa che ad Hollywood gli attori invecchiavano più lentamente – essere ingiustamente accusato di vigliaccheria c’era dell’altro. Ovvero un intreccio del racconto con la Storia, quella con la S maiuscola, laddove Benson era amico intimo del generale Custer. E proprio per questo sembrava sospetto il fatto che il capitano avesse rinunciato a prendere parte alla spedizione al Little Big Horn, che si presentava sotto auspici di gloria. In realtà il giovane aveva lasciato il forte per andare a prendere l’amata Martha (Barbara Hale) e solo per questo non aveva potuto unirsi a Custer. Era stato anzi il superiore ad incoraggiare il sottoposto nel farsi valere nella sua personale battaglia sentimentale. Benson, infatti, non era rampollo d’accademia mentre Martha era nientemeno figlia del colonnello Kellogg (Russell Hicks), che non vedeva di buon occhio la relazione tra i giovani proprio per l’umile origine del capitano. 

Come noto, la battaglia al Little Big Horn si era chiusa tragicamente, Custer e i suoi erano finiti uccisi mentre Benson l’aveva quindi scampata. Kellogg, chiamato a far luce sulla vicenda storica, poteva perciò cogliere al volo l’occasione e liquidare lo scomodo pretendente della mano di sua figlia. Dopo l’inquietante incipit, in cui Benson e Martha arrivano in quello che sembra un forte deserto, la vicenda si snoda infatti proprio con l’indagine del colonnello Kellogg incentrata tanto sulla condotta apparentemente scriteriata di Custer quanto sulla presunta vigliaccheria del capitano assente nel momento cruciale. Il quale, a processo, sembra più preoccupato di salvaguardare l’onore di Custer che il suo: nell’improvvisato dibattimento la condotta del generale viene messa sotto accusa dalle deposizioni dei superstiti, su tutti il maggiore Reno (Frank Wilcox) e il capitano Benteen (Michael Pate). Si tratta di due personaggi assai marginali nell’economia del film, mentre assai più rilevante fu il loro ruolo storico. E’ qui che 7° Cavalleria rivela le sue ambizioni: infarcire il racconto di queste figure storiche eleva le pretese d’intento superando anche quelle della vicenda drammatico-sentimentale in primo piano che pure conserva in parte la sua funzione. Ma con la decisione da parte di Benson di guidare il drappello che deve recuperare i corpi dei caduti del Little Big Horn, i dubbi sul suo coraggio si dissolvono e anche la storia romantica appare risolta: a questo punto è chiaro che il capitano è un uomo degno della figlia del colonnello. 

La missione che si accinge a compiere è infatti ritenuta suicida, in quanto i Sioux considerano il luogo della battaglia sacro e gli spiriti dei caduti, compresi Custer e i suoi, intoccabili. I due temi più importanti della vicenda privata del protagonista, quello del suo onore e la sua storia d’amore, sono già quindi felicemente risolti e a tenere vivo il racconto rimane solo l’esito della spedizione avventurosa. Accompagnato dagli scansafatiche del forte, capeggiati dall’ambiguo sergente Bates (l’ottimo Jay C. Flippen), il capitano Benson raggiunge il Little Big Horn, il luogo dell’ultima battaglia di Custer. Gli indiani sopraggiungono e non sono affatto intenzionati a lasciar fare agli invasori che armeggiano coi militari caduti. Qui, Lewis si trova di fronte al problema cruciale di 7° Cavalleria: il film vuole difendere la figura di Custer ma senza andare contro ai nativi. Il genere western, infatti, aveva già da tempo ribadito le ragioni storiche degli indiani e il film, in effetti, li tratta con rispetto. D’altro canto un intento abbastanza scoperto di Lewis è quello di rispedire al mittente gli attacchi strumentalmente politici nei confronti di Custer che già, evidentemente, affioravano. 

Da un punto di vista storico, Capelli Gialli – così veniva chiamato il generale dagli indiani – avrà avuto certamente delle colpe ma, in effetti, con l’avvicinarsi della contestazione sessantottina, venne sempre più preso come simbolo e criticato in maniera faziosa oltre ai suoi reali demeriti. La soluzione politica trovata da Lewis è ottima: il secondo dei cavalli di Custer irrompe sulla scena e gli indiani, pensando sia lo spirito del condottiero nemico, lasciano Benson e i suoi portare via i cadaveri dei soldati. E’, da un punto di vista politico-narrativo, diciamo così, un colpo da maestro: sono proprio gli indiani, poi idealizzati strumentalmente dalla corrente revisionista, a rendere onore a Custer. Un nemico ma senza dubbio un valoroso sul campo di battaglia. Anche da un punto di vista figurativo, con i Sioux che si aprono a fronte del carro dei soldati, la scena è evocativa e regge alla grande. Tuttavia sul piano avventuroso viene a mancare l’evento principale: senza uno scontro, senza lo scaturire della violenza, un racconto western inevitabilmente perde nerbo. Sul piano teorico tutto funziona: gli indiani sono rispettati, di Custer si riconosce perlomeno il coraggio e, anche sul lato prettamente narrativo, la viltà di Benson è cancellata. Senza dimenticare il lieto fine con Martha, scontato ma indubbiamente meritato. Eppure senza la battaglia finale viene a mancare il piatto forte del film che inevitabilmente finisce per svilirsi, almeno un poco. Ma un poco che basta a fare la differenza tra un buon film e un grande film.
Peccato; buone le intenzioni; meno convincente il risultato.





Barbara Hale 




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