1175_RETICOLATI (Barbed Wire). Stati Uniti 1927; Regia di Rowland V. Lee.
Dopo L’ultimo addio (sempre del1927, regia di Mauritz Stiller), la grande star del cinema muto Pola Negri, nei panni di Mona Moreau, si trova ancora alle prese con la Prima Guerra Mondiale. Reticolati è infatti un film ambientato in una fattoria francese trasformata in prigione di guerra per i tedeschi catturati sul fronte occidentale. Il tema dell’opera è molto interessante e, pur essendo un film bellico, quello del regista Rowland V. Lee indaga su argomenti più insoliti degli scontri in prima linea. Nell’obiettivo della sua macchina da presa ci sono i sentimenti, l’amor di patria che colma inizialmente i cuori ma che lascia ben presto il posto all’odio e al rancore per il nemico. Su questo terreno Pola Negri è insuperabile: la sua recitazione enfatizzata, necessaria ai tempi del muto, stilizza i moti emotivi sul volto, in particolare grazie agli straordinari occhi, per una rappresentazione di grande effetto scenico. Pola è una vera star, all’epoca era all’apice della carriera e, dall’alto della sua classe (pur nelle vesti di un’umile contadina) trascina il lungometraggio sorreggendolo praticamente da sola per quasi tutta la durata. Oskar (Clive Brook), il prigioniero tedesco con cui andrà ad intessere un’inaspettata storia d’amore, è un’ottima spalla. Serio e granitico, offre la sponda adeguata per mettere in risalto il talento e il carisma dell’attrice polacca. La storia è tesa, parte della fattoria dei Moreau è stata confiscata per farne il recinto dei prigionieri (da cui il titolo del film) e Mona deve continuare a lavorare per donare il raccolto alla patria. Il padre è anziano, il fratello André è partito per il fronte e allora, ad aiutare la donna nei lavori in fattoria, sono impiegati i prigionieri.
Mona già ha in odio l’invasore tedesco e quando giunge la notizia della morte di André diventa sempre più torva. Il clima del racconto non sembra certo lasciar presagire una storia d’amore, nonostante la prestanza di Oskar; la contadina francese ha sempre un diavolo per capello. Ad alleggerire il tenore della storia, che sembra davvero senza sbocchi, ci pensa il prigioniero Hans (Clyde Cook) sorta di saltimbanco che si prende l’impegno di far sorridere Mona, perdendo tutti i suoi strumenti musicali nelle scommesse sull’argomento che puntualmente gli si ritorcono contro. Nonostante sembrino mancare i presupposti, il regista Rowland V. Lee fa un buon lavoro sfruttando a dovere le qualità interpretative della Negri a cui basta un mezzo sguardo per lasciar intendere che stia soppesando Oskar non solo come manovale. Così, le cose cominciano a cambiare poco a poco e poi, con un paio di opportuni scossoni narrativi (un prigioniero tedesco malato che muore e soprattutto un tentativo di aggressione di un militare francese alla ragazza, protetta da Oskar), ecco la storia d’amore incendiarsi all’improvviso. Ovviamente, che un prigioniero tedesco metta le mani su un militare francese non è cosa da poco e così Oskar finisce a processo per essere prevedibilmente fucilato. Nonostante l’uomo sia sotto questa pesante accusa, non fa però cenno al fatto che il suo intervento fosse motivato dal tentativo di aggressione subita da Mona, per non coinvolgerla.
Ci pensa la ragazza a scagionare il prigioniero, provocando di conseguenza lo sdegno dell’intera comunità contadina: difendere un tedesco a discapito di un connazionale! E’ qui che il film ha una bella impennata qualitativa: ora, nonostante il racconto sia visto in ottica francese, la miseria morale che si è impossessata del paesino transalpino è mostrata senza sconti. In questo diventa fondamentale la scelta di un cast ben congeniato: da Claude Gillingwater nel ruolo dell’indurito padre di Mona (a causa della morte del figlio André), a Gustav von Seyffertitz in quelli di Corlet, accigliato spasimante rifiutato dalla ragazza, alle megere del villaggio, siamo di fronte ad una galleria di personaggi che sembrano pubblicizzare una nuova santa inquisizione. L’odio e il rancore della guerra sembrano però innestarsi su sentimenti di ostilità pregressi, come il sentirsi respinto che Corlet ha provato sulla sua pelle o un’invidiosa insofferenza che forse anima le bucoliche donnone al cospetto della bellezza di Mona.
Le disgrazie della guerra diventano quindi il volano per un odio già presente nella società e non solo quella francese perché la madre di Oskar, per lettera, si premura di avvisare il figlio che una sua eventuale unione con una nemica francese la farà morire di crepacuore, anche a guerra finita. Perché, nonostante il conflitto sia ormai terminato, si continua a morire, come in effetti accade a Jean, padre della ragazza, che non regge all’idea di un genero tedesco: insomma, tutto sembra andare per il peggio. Mona e Oskar non hanno più un posto, non li vogliono in Germania, ma dal paesello francese devono sloggiare. Poi, ecco il magistrale colpo di scena: André, il fratello di Mona, non è morto come si credeva, ma è sopravvissuto, anche se cieco. Eppure, nonostante sia ora privo della vista (e, simbolicamente, proprio per questo) egli è in grado di sentire quello che gli altri, accecati dall’odio, non riescono a vedere. Oskar è un brav’uomo, un soldato valoroso come lui, ha combattuto al fronte con onore, merita rispetto: la meschinità della gente del villaggio è così messa impietosamente in luce dall’atteggiamento leale e sincero di André.
Ah, manca un dettaglio: con un ultimo numero acrobatico, Hans riesce a far ridere Mona (ora divenuta più serena) e si può riappropriare di tutti i suoi strumenti musicali persi nelle precedenti scommesse. Perché alla Hollywood del tempo, anche in un plumbeo dramma d’amore a sfondo bellico, l’aspetto leggero aveva ugual dignità narrativa degli altri elementi e tutte le trame e sottotrame, anche se secondarie, venivano chiuse.
Grande cinema.
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