1179_IL SOLITARIO DI RIO GRANDE (Shoot Out). Stati Uniti 1971; Regia di Henry Hathaway.
Con gli anni Settanta, le possibilità per il western classico erano ormai esaurite ma Henry Hathaway proprio non voleva sentire ragioni. Un paio d’anni prima aveva girato Il Grinta, forse l’ultimo grande western classico – per il quale tra l’altro John Wayne vinse il premio Oscar – e così decide di insistere ancora nonostante le correnti crepuscolari del genere, il contro-western e gli spaghetti-western, stessero ormai spopolando. Ad essere onesti il regista americano ricorre ad un soggetto un po’ troppo simile al citato precedente ma tutto sommato questo è il minore dei problemi. Chiamato ad interpretare il protagonista di un film che formalmente si presenta appunto come classico è Gregory Peck, uno degli ultimi attori con il phisique du role adatto a non essere ancora invecchiato eccessivamente. Peck aveva infatti più di qualche anno in meno rispetto a gente come lo stesso Wayne, o James Stewart e Gary Cooper e, pur non essendo al loro livello, garantiva una presenza scenica adeguata a reggere il peso di un western classico. Per capirci: ne Il solitario di Rio Grande Clay Lomax, il personaggio che interpreta, è un ex detenuto per rapina in banca che non si dimostrerà mai pentito del fatto in sé, cosa che, del resto, Peck avrebbe fatto fatica a rendere credibile. Tuttavia, proprio la scarsa capacità di dare spessore ai suoi personaggi dell’attore americano in questo caso aiuta a rendere Clay plausibile come buono della vicenda. Perché anche il rapporto con la piccolissima Decky (Dawn Lyn), la bambina di sei anni che si ritrova ad un certo punto sul groppone, non è che lo veda particolarmente amabile.
Clay non si cura minimamente dei sentimenti della povera bimbetta e cerca apertamente di sbolognarla al più presto, peraltro vanamente. Nel rapporto tra i due si vedono i citati rimandi a Il Grinta, sebbene la cosa non sia tutto sommato eccessiva. Anche ne Il solitario di Rio Grande, come nel citato precedente western di Hathaway, abbiamo il confronto tra un esponente della vecchia guardia – Clay, sa va san dir – e la teppaglia tipica dei western crepuscolari, in questo caso Bobby Jay Jones (Robert F. Lyons) e i suoi due scagnozzi. Lo scontro è gustoso anche se non certo originale, con Bobby a fare lo smargiasso coi più deboli, dove si lascia andare ad episodi di crudeltà gratuita – qui il rimando alle correnti crepuscolari del western è lampante – salvo poi finire a mal partito quando si imbatte in un vero osso duro come Clay. Un po’ come dire che il tardo-western o il western all’italiana sono poca cosa se paragonati ai vecchi classici, che sembra essere un po’ l’intento complessivo di Hathaway. E’ un discorso condivisibile ma va ricordato che furono proprio quelle evoluzioni del genere a rivelare al grande pubblico l’ipocrisia che, in ogni caso, era alla base del western. Nel tentativo di ribadire la validità delle coordinate dei classici, Il solitario di Rio Grande prova a portare sorta di giustificazioni, mostrando un eroe con i suoi lati oscuri eppure con un rispettabile senso dell’onore. Sebbene senza essere del tutto convincente: ad esempio, il fatto che Clay non abbia tradito il complice della rapina – che gli aveva sparato alle spalle – facendone il nome al processo, è una cosa quantomeno ambigua.
Certo non è quello che abitualmente si definisce infame – peraltro ci sarebbe da discutere a questo proposito – in ogni caso Clay insegue la vendetta privata anziché la Giustizia, e su questo punto c’è invece poco da disquisire. Anche il prendersi cura di Decky è un tema concettualmente irrisolto: lo fa per compassione, d’accordo, ma la bambina è sua figlia? Nel qual caso, quale compassione, si tratterebbe del suo dovere peraltro svolto in modo quanto mai sbrigativo. Comunque alla precisa domanda l’uomo non sa rispondere in modo chiaro e la cosa rimane un po’ sfumata. Peck anche stavolta stenta quando deve mettere in luce qualche suo punto debole, in questo caso esplicitamente previsto dal copione, e anche stavolta l’attore fatica a dare spessore umano al suo personaggio. Forse più utile e funzionale nel compito di dar corpo all’idea che il ruolo del personaggio positivo – nei classici definito l’eroe – sia effettivamente da definire con qualche ambiguità è il comportamento della vedova Juiana Farrell (Patricia Quinn). La donna si dimostra subito ospitale e ben disposta verso il prossimo, accogliendo in casa Clay e Decky finiti sotto un violento nubifragio.
Ma quando irrompono Bobby e i suoi scagnozzi, se è lesta a difendere il figlio adolescente, al contrario tace quando il bandito indirizza le sue violente attenzioni sulla piccola Decky. E’ una brava donna, è chiaro, ma ha le sue debolezze. Le scene di violenza gratuita che seguono, nelle quali viene citato Guglielmo Tell, sono davvero memorabili, in particolar modo nella replica che chiuderà la contesa. Sulla testa di Decky Bobby aveva piazzato delle tazzine, quando Clay ripeterà il gioco ai danni del bandito, gli metterà sul cranio prima una vera mela ma, in conclusione, una pallottola.
La differenza tra un eroe come Clay e un volgare bandito come Bobby è che questi usa la violenza come sopraffazione gratuita sui più deboli, in questo caso Decky ma nel corso del film svariati personaggi. Clay, quando mette Bobby spalle al muro, sotto la mela, lo sprona a sparare, nel qual caso il nostro si sarebbe difeso; diversamente avrebbe tirato al bersaglio sopra la testa del rivale proprio come Guglielmo Tell. Lo scaltro bandito, vista la male parata e timoroso di sfidare Clay, rimane passivo confidando nella mira del rivale. Con lo stratagemma della pallottola come bersaglio, che se colpita sarebbe esplosa, Bobby è finalmente costretto ad accettare un regolare duello. Più che questo pur interessante passaggio, le cose migliori del film sono di natura fotografica. Le scene con Decky, piccolissima e a piedi nudi, al cospetto dei banditi sono impressionanti per come riescono a mostrare l’innocenza della bambina e il suo essere brutalizzata dalla malvagità degli uomini. Più piacevoli gli spettacolari scenari naturalistici su cui Hathaway insiste ripetutamente: la Inyo National Forrest in California, usata come location, è davvero meravigliosa e degna di un grande classico. Purtroppo, e simbolicamente, la musica di Dave Grusin, pur se di maniera, non ha un leitmotiv così incisivo per completare l’opera e sancisce l’incompiutezza complessiva del film.
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