1186_ILPROMONTORIO DELL PAURA (Cape Fear). Stati Uniti 1962; Regia di J. Lee Thompson.
In un processo, a fare la differenza, a volte sono più le cosiddette motivazioni della sentenza rispetto al verdetto in sé stesso: è infatti nella esposizione dei fatti rilevanti che stanno dietro le decisioni della giuria che si può comprendere a fondo le ragioni della questione. Ricorrere ad elementi giuridici per comprendere Il promontorio della paura ha una sua logica: innanzitutto perché è a quello che ci fanno pensare il 1962, anno di uscita del film, e Gregory Peck, che in quello stesso anno vinse l’Oscar per il ruolo dell’avvocato Atticus Finch ne Il buio oltre la siepe (regia di Robert Mulligan) dopo che, in precedenza, aveva vestito la toga anche ne Il caso Paradine (1947, di Alfred Hitchcock). E, molto più concretamente, perché Peck anche ne Il promontorio della paura interpreta un avvocato, Sam Bowden. Insomma, l’attore statunitense aveva il phisique du role per incarnare la faccia pulita e legale dell’America. Anche troppo, a dir la verità. Quello che mancò a Peck, per essere davvero un eroe a tutto tondo, era un filo di ambiguità. Intendiamoci: l’attore vanta una serie di ruoli discutibili, a cominciare dal capitano Achab ne Moby Dick, la balena bianca (1956, di John Huston) passando per il sergente Dawson in Cielo Giallo (1948, di William A. Wellman) per arrivare al capitano Lance ne L’avamposto degli uomini perduti (1951, di Gordon Douglas), giusto per fare tre esempi. Ma sono uomini tutti d’un pezzo, senza cedimenti e comunque Peck non è quasi mai riuscito a mettere in mostra un suo lato debole in modo da dare maggiore spessore alla sua figura. Perfino il monumentale John Wayne, che era l’eroe granitico per definizione, ha in più d’un occasione mostrato qualche crepa. Per non parlare di Gary Cooper o James Stewart che al proprio lato oscuro fecero ricorso più volte.
Per un certo tipo di ruolo, che si imponesse anche fisicamente in drammi seri e avventurosi, questi erano i nomi da cui si poté attingere per decenni e Peck non fu mai all’altezza degli altri proprio per questa sua mancanza di tridimensionalità. Meglio di lui, molto meglio di lui, fu in effetti Robert Mitchum che aveva il problema opposto: Mitch, ambiguo lo era anche troppo ma certo da quella condizione era più semplice poi interpretare eventualmente l’eroe positivo sfumando lo sguardo inquietante. In pratica, una parata disposta in chiave pseudo-politica degli attori alti e imponenti – per capirci, Humphrey Bogart era troppo basso e Cary Grant troppo tenero – si apriva a sinistra con Mitchum – forse eccessivamente inquietante – poi Cooper, Stewart e Wayne al centro – i più equilibrati – infine Peck a destra – troppo rassicurante.
Per questo ne Il promontorio della paura, fotografato in un quanto mai adeguato ed efficace bianco e nero, pescando in questa ipotetica galleria di interpreti, i protagonisti sono i due agli opposti: uno è lo specchio, uguale e contrario, dell’altro. Mitch, nel ruolo di Max Cady si supera, esagerando forse un po’ nelle fasi iniziali ma centrando perfettamente il personaggio, e dubbi non ce n’erano, a lungo andare. Nonostante la trama si sforzi di renderlo odioso, le molestie alla piccola Nancy (Lori Martin) o a qualunque altra gonnella incontri, la violenza gratuita ed esplicita nei confronti di Diane (una fulgida Barrie Chase) e perfino l’uccisione del cane dei Bowden, Cady è l’(anti)eroe del film.
Certo più di Bowden che risulta particolarmente antipatico pur non avendo colpe specifiche nella contesa con Cady, visto che nel primo loro incontro, quello che spedirà quest’ultimo in gabbia, si era comportato da cittadino modello, salvando una fanciulla dalle grinfie del delinquente e testimoniando al successivo processo. Anzi, l’avvocato Bowden, uomo di legge, benestante, fedele marito, premuroso padre, è l’incarnazione dell’obiettivo che si pone il Sogno Americano. Eppure, qualcosa non torna. Perché, per essere un uomo di successo, Bowden dimostra le sue qualità migliori, quelle che fanno di lui una persona per bene, solo quando le cose gli girano per il verso giusto. Facile fare il fenomeno quando hai tutti gli assi in mano: con un lavoro sicuro, una bella casa, una famiglia felice, il nostro avvocato può infatti permettersi di essere un uomo davvero a modo. Ma, quando arriva qualcuno a turbare la sua quiete, ecco che il nostro civilissimo uomo di legge mostra la sua vera natura. Non esita a chiedere favori personali all’ispettore di polizia Dutton (Martin Balsam), ingaggia un detective privato (Telly Savalas) che arriverà addirittura ad assoldare tre braccianti per picchiare duramente Cady.
E qui che Peck mostra il suo limite, in campo recitativo, ma in questo caso la lacuna risulta funzionale al film. Bowden, infatti, anche quando esce dal seminato non perde la pazienza, non si lascia andare in preda all’ira, come potrebbe fare un protagonista di un film di Anthony Mann. L’avvocato è sempre convinto di essere nel giusto: anche quando deciderà di tendere una trappola per uccidere Cady rimarrà imperturbabile nella sua arrogante certezza della ragione. Tant’è che per imbastire tale trappola chiede assurdamente aiuto al suo amico ispettore di polizia; oltre ad usare come esca la figlioletta e la moglie Peggy (Polly Bergen) dimostrando una bella dose di pelo sullo stomaco. A proposito della Bergen, l’attrice, pur non essendo una bellezza di grido ad Hollywood, è uno degli elementi di spicco del film soprattutto grazie all’espressività degli occhi che sono, forse, l’effetto speciale più funzionale alla suspense. Una trappola prevede di tracciare una pista che la preda deve poi seguire: in effetti il film arriverà al momento cruciale in modo ormai prevedibile. Cady semina la strada di atti criminali che lo predestinano alla sconfitta e il dubbio diviene quindi inevitabilmente su come saprà chiudere la partita Bowden, dato sicuro vincente da qualsiasi allibratore.
Ucciderà davvero il rivale, rivelandosi della stessa pasta? O riuscirà a trattenersi, dimostrandosi migliore e salvando quindi il Sogno Americano? Non siamo in uno spaghetti-western e neppure in poliziottesco, gli anni Sessanta sono appena agli inizi e Il promontorio della paura è ancora cinema americano classico: la scelta cade sulla seconda opzione. Ma, attenzione, in certi casi, come si diceva in apertura, le motivazioni sono cruciali. Quando ascoltiamo le parole dell’avvocato Bowden, la sua arringa in cui sadicamente illustra il futuro che attende Cady in prigione, si capisce che non siamo affatto di fronte ad un lieto fine. Bowden ripaga il criminale con la sua stessa moneta, non uccidendolo ma cercando la maniera per farlo soffrire maggiormente, allo stesso modo in cui Cady minacciava la figlia dell’avvocato piuttosto che prendersela con lui. E’ questo freddo calcolo che sprona Bowden a non premere il grilletto: Cady soffrirà di più e più a lungo in prigione. Neppure Fritz Lang, che nelle sue storie distingueva tra cattivi e meno cattivi – chiamando per convenzione cattivi i primi e buoni i secondi – sarebbe in grado di trovare la differenza tra Cady e Bowden. Il Sogno Americano non aveva un lato oscuro: era direttamente un incubo. Specialmente se avevi solo otto dollari in tasca e ti pescavano gli sbirri a passeggiare per strada.
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