1188_LE SANG DES BÊTES. Francia 1948; Regia di Georges Franju.
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Il 1948 segna così il ritorno dietro alla macchina da presa di Franju,
stavolta da solo, e il documentario risultato di questo suo secondo esordio è
sconvolgente: Le Sang des Bêtes è un pugno allo stomaco in grado di
mettere KO lo spettatore più scafato ancora oggi, dopo oltre settant’anni.
Franju ci accompagna nei macelli alla periferia di Parigi, mostrandoci in modo
quanto mai realistico come i poveri animali vengano uccisi. Le scene sono
strazianti e, dato che il documentario è di soli 22 minuti, ben difficilmente
si ha il tempo di superare lo choc dell’uccisione, quasi in apertura, del
cavallo bianco che stramazza al suolo dopo essere stato colpito alla testa
dall’apposito strumento. Tra le scene a cui non sarà più possibile sfuggire
vanno segnalate la decapitazione dei vitelli, con gli occhi terrorizzati degli
animali, l’agitarsi delle zampe delle pecore e il feto ritrovato tra le
interiora di una vacca. Franju filma con apparente distacco, avendo cura di
mostrarci anche l’abilità dei macellai che lavorano sodo in condizioni
difficili e alle prese con un’attività certo pericolosa. E c’è del rispetto,
profondo rispetto, del regista per questi lavoratori, nonostante il risultato
della loro opera ci metta a dir poco a disagio. Ed è in questo equilibrio,
nella capacità di mostrare senza enfasi né retorica l’inaccettabile attività
dei macelli a danno degli animali e il contemporaneo sguardo solidale con
questi umili lavoratori, si può scorgere fin da questo suo precoce lavoro la
vera poetica di Franju. Lo stile compassato, documentaristico – d'altronde il
corto in questione è un documentario – forse sottintende qualcosa; anche
l’ironia, che si fa esplicita quando viene presentata l’edifico della casa
d’aste del macellaio – che potrebbe essere scambiata per la cappella a San
Giovanni Battista, patrono dei macellai – sembra utilizzata quasi a fingere che
non si stia mostrando nulla di particolare. "È la cattiva combinazione, è la sintesi sbagliata, costantemente
fatta dall'occhio mentre si guarda intorno, che ci impedisce di vedere tutto
come strano" sosteneva il regista francese stigmatizzando la borghesia dello sguardo
a cui ci siamo assuefatti. La carne arriva sulle nostre tavole, oggi come
allora, e non dovremmo essere poi così stupiti se ci capita di vedere come
inizia questo processo. Il trauma che subiamo nel vedere Le
Sang des Bêtes dovrebbe essere quello di tutti i giorni, visto che
queste scene avvengono, tra l’approvazione generale, quotidianamente. Questo
non succede per via della citata sintesi sbagliata – che più che l’occhio fa il
nostro cervello, interpretando in modo estremamente efficiente il credo
borghese del quieto vivere – e ci illude il nostro sia un mondo migliore,
frutto del progresso e dell’emancipazione della moderna società.
Una realtà da
sogno che, in effetti, non esiste ma che noi percepiamo costantemente come nostra
e che per interpretare la quale Franju ricorrerà agli stilemi del surrealismo,
successivamente con esempi più clamorosi ed espliciti ma già presenti fin da
questo suo cortometraggio. Il che potrebbe essere difficile da accettare,
essendo Le Sang des Bêtes un documentario e il surrealismo in linea
teorica una corrente molto poco adatta ma Franju, sagacemente, utilizza la vena
onirica della corrente per documentare lo stato ovattato nel quale siamo
abituati a vivere. Quindi cogliendo in pieno lo spirito del documentario come
descrizione del vero. A partire dalla fotografia in bianco e nero – di Marcel
Fradetal già operatore per il Vampyr (1932) di Carl Theodor Dreyer –
morbida e densa, allo spiazzante incipit che, dopo averci informato di essere ‘alle
porte di Parigi’, non entra in città ma rimane nella desolata periferia
mostrando una serie di immagini sconclusionate eppure plausibilissime nel
contesto. A corredo, una voce femminile fuori campo sussurra poeticamente
introducendoci nella soave, benché spoglia, atmosfera del cortometraggio; una
dolce melodia e il bacio di una giovane coppia lascia infine posto
all’inquadratura sinistramente inclinata di un convoglio ferroviario e
all’andirivieni di alcuni assai prosaici camion. La voce femminile ci
accompagna fino all’ingresso del macello; poi, nel momento di descrivere gli
attrezzi del mestiere, ne subentra una maschile. La cosa è lievemente
spiazzante, perché ci si aspetta un unico narratore; in realtà Franju vuole forse
solo dimostrare quanto sia convenzionale il nostro modo di intendere il cinema
e, di conseguenza, il mondo. Il documentario è girato in diversi macelli e
negli intermezzi tornano tanto le immagini della città immersa nella sua
ipnotica vita quotidiana, quanto la voce della ragazza che, a questo punto,
risulta doppiamente straniante. La conclusione, sulle struggenti note della
melodia di Jospeh Kosma, lascia le pecore – ancora sconvolte dopo aver visto le
loro compagne uccise brutalmente – addormentarsi in silenzio, mentre Parigi, la
fuori, continua la sua serena e quotidianità. Serena ma ipocrita: e questo lo
possiamo cogliere proprio grazie alla poetica del cinema di Franju che riesce
in modo sublime a far coesistere nel suo cinema elementi contrapposti.
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