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martedì 27 dicembre 2022

ENIGMA FRANJU_2: LE SANG DES BÊTES

1188_LE SANG DES BÊTESFrancia 1948; Regia di Georges Franju.

2_continua.
Il 1948 segna così il ritorno dietro alla macchina da presa di Franju, stavolta da solo, e il  documentario risultato di questo suo secondo esordio è sconvolgente: Le Sang des Bêtes è un pugno allo stomaco in grado di mettere KO lo spettatore più scafato ancora oggi, dopo oltre settant’anni. Franju ci accompagna nei macelli alla periferia di Parigi, mostrandoci in modo quanto mai realistico come i poveri animali vengano uccisi. Le scene sono strazianti e, dato che il documentario è di soli 22 minuti, ben difficilmente si ha il tempo di superare lo choc dell’uccisione, quasi in apertura, del cavallo bianco che stramazza al suolo dopo essere stato colpito alla testa dall’apposito strumento. Tra le scene a cui non sarà più possibile sfuggire vanno segnalate la decapitazione dei vitelli, con gli occhi terrorizzati degli animali, l’agitarsi delle zampe delle pecore e il feto ritrovato tra le interiora di una vacca. Franju filma con apparente distacco, avendo cura di mostrarci anche l’abilità dei macellai che lavorano sodo in condizioni difficili e alle prese con un’attività certo pericolosa. E c’è del rispetto, profondo rispetto, del regista per questi lavoratori, nonostante il risultato della loro opera ci metta a dir poco a disagio. Ed è in questo equilibrio, nella capacità di mostrare senza enfasi né retorica l’inaccettabile attività dei macelli a danno degli animali e il contemporaneo sguardo solidale con questi umili lavoratori, si può scorgere fin da questo suo precoce lavoro la vera poetica di Franju. Lo stile compassato, documentaristico – d'altronde il corto in questione è un documentario – forse sottintende qualcosa; anche l’ironia, che si fa esplicita quando viene presentata l’edifico della casa d’aste del macellaio – che potrebbe essere scambiata per la cappella a San Giovanni Battista, patrono dei macellai – sembra utilizzata quasi a fingere che non si stia mostrando nulla di particolare

"È la cattiva combinazione, è la sintesi sbagliata, costantemente fatta dall'occhio mentre si guarda intorno, che ci impedisce di vedere tutto come strano"
sosteneva il regista francese stigmatizzando la borghesia dello sguardo a cui ci siamo assuefatti. La carne arriva sulle nostre tavole, oggi come allora, e non dovremmo essere poi così stupiti se ci capita di vedere come inizia questo processo. Il trauma che subiamo nel vedere Le Sang des Bêtes dovrebbe essere quello di tutti i giorni, visto che queste scene avvengono, tra l’approvazione generale, quotidianamente. Questo non succede per via della citata sintesi sbagliata – che più che l’occhio fa il nostro cervello, interpretando in modo estremamente efficiente il credo borghese del quieto vivere – e ci illude il nostro sia un mondo migliore, frutto del progresso e dell’emancipazione della moderna società. 

Una realtà da sogno che, in effetti, non esiste ma che noi percepiamo costantemente come nostra e che per interpretare la quale Franju ricorrerà agli stilemi del surrealismo, successivamente con esempi più clamorosi ed espliciti ma già presenti fin da questo suo cortometraggio. Il che potrebbe essere difficile da accettare, essendo Le Sang des Bêtes un documentario e il surrealismo in linea teorica una corrente molto poco adatta ma Franju, sagacemente, utilizza la vena onirica della corrente per documentare lo stato ovattato nel quale siamo abituati a vivere. Quindi cogliendo in pieno lo spirito del documentario come descrizione del vero. A partire dalla fotografia in bianco e nero – di Marcel Fradetal già operatore per il Vampyr (1932) di Carl Theodor Dreyer – morbida e densa, allo spiazzante incipit che, dopo averci informato di essere ‘alle porte di Parigi’, non entra in città ma rimane nella desolata periferia mostrando una serie di immagini sconclusionate eppure plausibilissime nel contesto. A corredo, una voce femminile fuori campo sussurra poeticamente introducendoci nella soave, benché spoglia, atmosfera del cortometraggio; una dolce melodia e il bacio di una giovane coppia lascia infine posto all’inquadratura sinistramente inclinata di un convoglio ferroviario e all’andirivieni di alcuni assai prosaici camion. La voce femminile ci accompagna fino all’ingresso del macello; poi, nel momento di descrivere gli attrezzi del mestiere, ne subentra una maschile. La cosa è lievemente spiazzante, perché ci si aspetta un unico narratore; in realtà Franju vuole forse solo dimostrare quanto sia convenzionale il nostro modo di intendere il cinema e, di conseguenza, il mondo. Il documentario è girato in diversi macelli e negli intermezzi tornano tanto le immagini della città immersa nella sua ipnotica vita quotidiana, quanto la voce della ragazza che, a questo punto, risulta doppiamente straniante. La conclusione, sulle struggenti note della melodia di Jospeh Kosma, lascia le pecore – ancora sconvolte dopo aver visto le loro compagne uccise brutalmente – addormentarsi in silenzio, mentre Parigi, la fuori, continua la sua serena e quotidianità. Serena ma ipocrita: e questo lo possiamo cogliere proprio grazie alla poetica del cinema di Franju che riesce in modo sublime a far coesistere nel suo cinema elementi contrapposti.
 
_continua. 










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