1182_FANTOZZI . Italia 1975; Regia di Luciano Salce.
Approdo del personaggio letterario e televisivo e primo capitolo di una fortunata saga cinematografica, Fantozzi, il lungometraggio del 1975, è naturalmente un eccellente esempio di cinema comico anche considerandolo di per sé stesso. Il cardine dell’opera è il personaggio, validissima incarnazione in chiave comico-surreale delle debolezze italiche che ha avuto un impatto di grande portata sul paese, tanto da divenire un simbolo universale per la figura del perdente vessato dai prepotenti di turno e da influenzare in modo massiccio persino il linguaggio comune con una serie di peculiari definizioni come megadirettore galattico, sedie in pelle umana e via di questo passo. Questo enorme successo popolare consolidato da dieci film in venticinque anni, ha forse addirittura finito per rendere un po’ scontata tanto l’eccezionalità del personaggio di Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio, ma che lo dico a fare) quanto il suo clamoroso esordio sul grande schermo. Che, ben orchestrato da Luciano Salce in regia, fila dritto come un fuso inanellando una serie di gag che sono rimaste nella Storia del cinema italiano, dalla partita di calcio ‘scapoli vs ammogliati’, alla gara di tennis tra Fantozzi e il mitico Filini (Gigi Reder), oltre ai continui quanto vani assalti del ragioniere più famoso d’Italia alla conturbante signorina Silvani interpretata da una scintillante Anna Mazzamauro. La Mazzamauro merita almeno una nota: Villaggio, assai poco elegantemente, in seguito affermò che per quel ruolo scelse l’attrice “come si sceglie un cesso” parafrasando sui lineamenti non proprio accattivanti di Anna.
Tuttavia, la signorina Silvani della Mazzamauro quello che è lo è camminando sui tacchi alti in modo impareggiabile, e questo è innegabile, cosa che le conferisce un fascino, certo ironico e ruspante ma irresistibile e non solo per Fantozzi. Forse il ruolo della Silvani, e il suo charme mai realmente riconosciuto pubblicamente, è l’aspetto meno risaputo in un testo su cui c'è davvero poco da aggiungere a quanto ormai entrato nel patrimonio genetico del paese. Se non forse un paio di passaggi certamente noti ma in genere poco considerati o comunque meno degli altri.
Sono due frammenti di natura leggermente diversa dal racconto, si tratta di passaggi etici e morali, in ogni caso nelle corde del resto del film, sia chiaro, e comunque importanti perché stabiliscono i limiti entro i quali si può ridere e scherzare. E questo, nel paese dove tutto è concesso – se non ti fai beccare – non è cosa da poco. Fantozzi, infatti, pone almeno due limiti precisi alla sua feroce ironia, alla sua vena dissacrante che chiama in causa persino Gesù Cristo e San Pietro per farci delle gag comiche. E questo considerando che, nel 1975, il detto ‘scherza coi fanti e lascia stare i santi’ era ancora uno spartiacque da tenere bene in mente dal cinema che volesse essere davvero popolare nel belpaese. Il primo limite che Villaggio e Salce tracciano è nella presa in giro per l’aspetto estetico, nella famosa scena in cui la piccola Mariangela (Plinio Fernando opportunamente truccato), figlia del ragioniere, viene chiamata Cita, come la scimmia amica di Tarzan, dai dirigenti della megaditta al momento della consegna dei regali natalizi. Fantozzi, che si accorge della crudele presa in giro, interviene e cerca di giustificare la cosa tirando in ballo la famosa Cita Hayworth, bellissima attrice di Hollywood. Il che abilmente serve a stemperare nell’ironia il passaggio che tuttavia rimane particolarmente emozionante.
L’altro confine che tracciano gli autori è che per quanto sia possibile venire umiliati ed accettare passivamente la cosa, e in questo Fantozzi è un vero campione, non si deve far umiliare un’altra persona a causa nostra. La scena è quella del bigliardo dove, arrivato ad essere chiamato pubblicamente coglionazzo per la 38° volta da Cattelani (Umberto D’Orsi), suo dispotico superiore, il nostro eroe intravvede la sofferenza e la vergogna per la situazione negli occhi della moglie Pina (Liù Bosisio). Fantozzi dice basta, ribalta in modo improbabile la partita e, per non subirne le conseguenze, rapisce la madre del Cattelani virando una scena di ribellione personale più che sociale in uno dei passaggi più comicamente assurdi del film – con la vegliarda che invece di imbufalirsi si innamora del ragioniere (!). Ci sarebbe anche da osservare un altro limite nella satira dell’opera, quello politico, con la feroce critica sociale che si accanisce solo contro la borghesia industriale, lasciando per l’aristocrazia il benevolo, benché intriso di compatimento e commiserazione, sguardo che tratteggia la contessina Alfonsina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare (Elena Tricoli), ma ci bastano i due citati passaggi di natura etica immersi nella comicità surreale e plastica del film per stabilire che Fantozzi, oltre a farci scompisciare dalle risate, sia indiscutibilmente un capolavoro ancora oggi indispensabile.
Anna Mazzamauro
Liù Bosisio
Elena Tricoli
Galleria di manifesti
ricordo anche un video in cui la Mazzamauro criticava Villaggio che non le aveva mai offerto un caffè... insomma gli ha dato pan per focaccia :D
RispondiEliminasu Fantozzi che dire? Mito :)
Davvero!
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