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mercoledì 1 maggio 2019

LA CORTA NOTTE DELLE BAMBOLE DI VETRO

341_LA CORTA NOTTE DELLE BAMBOLE DI VETRO Italia, Germania Ovest, Jugoslavia 1971. Regia di Aldo Lado.

Nato significativamente a Fiume, città come noto separata dall’Italia, Aldo Lado esordisce alla regia con il folgorante La corta notte delle bambole di vetro, un’opera che sembra segnata dal tema della separazione dal proprio paese. Tema che tornerà ancora, in modo forse più approfondito con il successivo, e altrettanto notevole Chi l’ha vista morire?, dell’anno seguente, ma  che influenza comunque sin da subito il regista. Il personaggio protagonista di La corta notte delle bambole di vetro, Gregory Moore (Jean Sorel) è infatti uno straniero (un americano) che vive e lavora a Praga, negli anni successivi alla drammatica Primavera della capitale cecoslovacca, ed è quindi separato dalla patria; e volendo ben vedere, in seguito viene anche bruscamente separato dalla compagna, la giovane Mira (una splendida Barbara Bach). Ma questa è forse solo una coincidenza dialettica, mentre dove Lado focalizza davvero il suo sguardo è sulla condizione di Gregory che vive in una città che non gli appartiene; meglio: a cui lui non appartiene. Questo straniamento pervade tutto il film, soprattutto nella sua componente più razionale, quella investigativa, dove il giornalista americano cerca la sua ragazza scomparsa improvvisamente e senza ragione apparente, e deve farlo in una città enigmatica e misteriosa. E se questa ambiguità è diffusa nella trama più ordinaria, la ricerca di una persona scomparsa, va aggiunto che esiste anche una sponda ancor meno rassicurante, all’interno del film. In effetti, La corta notte delle bambole di vetro è come sospeso tra le due tracce, quella investigativa gialla e quella del racconto di pura fantasia, e proprio la sospensione tra uno stato e l’altro, è il vero tema dominante del film. 

E che riprende, come si accennava all’inizio, la condizione del regista in relazione alla sua provenienza geografica. In ogni caso, tutto il film è come sospeso in una condizione in equilibrio, in moltissime sue componenti: salta all’occhio, ovviamente, lo stato in cui versa Gregory, che viene trovato nell’incipit come morto ma che in realtà rimarrà cosciente per tutta la durata della pellicola. La morte apparente di Gregory ricorda il racconto La sepoltura prematura di Edagar Allan Poe; ma a Kafka rimandano le atmosfere angoscianti, il senso di oppressione della storia, unite ai dettagli di Praga e al nome del protagonista (Gregory in luogo di Gregor, il protagonista de La metamorfosi). In sostanza è come se il tema del racconto rimanga in bilico anche tra questi due grandi referenti letterari. 

Praga è poi vista come una sorta di stazione di passaggio, dal protagonista che proviene dall’America e deve andare a Londra, ma anche da Mira che, arrivata in treno, è invitata a seguirlo nella capitale inglese dal compagno; anche se poi emerge che avesse piuttosto in programma un viaggio a Mosca, ma su questo torneremo poi. Del resto lo dice anche Jacques (il solito grande Mario Adorf): “la città è attratta da oriente e occidente”.

Quindi rimane un po’ a mezza via, sembrerebbe intendere l’uomo; ma la cosa interessante è anche un’altra: anche lui, come tutti, nel film, non la nomina mai. Praga, a cui Lado dedica la scena d’apertura, una panoramica che inequivocabilmente la definisce, non viene mai nominata così come non viene citato nemmeno il fatto di trovarsi in Cecoslovacchia. Si capisce che ci si trova oltre cortina, in quella zona di cuscinetto che divideva l’Unione Sovietica dal resto del mondo; una specie di terra di nessuno su cui al tempo i sovietici mantenevano un controllo comunque opprimente, ma non diretto e ferreo come all’interno dell’Unione. 

Quello di una sorta di zona del crepuscolo è un concetto che ritorna nel film anche nelle parole degli adepti della setta satanica, che parlano di “addormentare” chi non si adegua, facendo riferimento ad una condizione non del tutto cosciente o forse, un po’ al contrario (specularmente), al metodo che useranno poi con Gregory (cosciente ma immobile). Tuttavia in quel caso si tratta solo di una forma momentanea, visto che poi il nostro protagonista viene fisicamente eliminato, ma probabilmente a Lado vuole dare una connotazione politica al suo testo, esprimendo il concetto che le elite dominanti annebbiano la coscienza della popolazione, in prima istanza col denaro o il sesso, ma non esitando a ricorrere ad altri sistemi (nel film c’è anche un rimando alla droga). Il disagio che pervade tutto il film, inevitabile anche perché assistiamo alla vicenda dal punto di vista di una persona in stato di morte apparente, è però fortemente rimarcato in ogni frammento della storia. 


I passaggi narrativi e le scene si ripetono, a ribadire la natura duplice della trama, ma non c’è un semplice raddoppio, una specularità; c’è spesso, se non sempre, un elemento, o più di più d’uno, che distrae, sposta ulteriormente il centro dell’attenzione dal doppio binario. Un po’ sullo schema delle località geografiche, facilmente descrivibile: America / Praga, ma poi Londra; e Mosca? Rimane il dubbio che l’ultima sia una falsa pista del racconto investigativo, ma se dal primo binomio sappiamo che un americano a Praga è la nostra storia, sappiamo anche già che se ne deve andare in Inghilterra. E Mosca potrebbe essere la variabile valida per Mira. 

Come detto le scene doppie si sprecano, ma alcune volte il raddoppio è ulteriormente frammentato: la scena dello spazzino dell’incipit si sdoppia con quella del giardiniere che rastrella, o quella vagamente erotica in cui un Jacques palpa il seno all’amica americana fa il paio con la coppia  che flirta in biblioteca; ma la ragazza bionda ritorna una volta ancora, al bar all’aperto, sdoppiando la sua scena in un’altra direzione. Il film è costellato di questi passaggi ora raddoppiati, ora con più biforcazioni: l’analisi delle reazioni del pomodoro si specchia istantaneamente nei tentativi di rianimare Gregory; ma anche nella finale autopsia, se consideriamo gli specialisti al lavoro (l’amico dottore e il professore/sacerdote) e soprattutto l’analoga sorte dell’uomo e dell’ortaggio finiti sotto i ferri. Ci sono due persone che si chiamano Bacos, uno è un politico e l’altro è idraulico; quest’ultimo si suicida gettandosi dal balcone, e la sua caduta va a complicare la specularità dei tuffi forzati del vecchietto e dello stesso protagonista, il primo sulla ferrovia e il secondo che finisce nella Moldava. E a proposito di corpi finiti nel fiume cittadino, la caduta in acqua di Gregory fa anche il paio col cadavere della ragazza ripescato, che a sua volta si sdoppiava nel corpo di Mira, visto che è proprio lei che l’uomo teme di dover riconoscere. 


Questo lavoro in sede di scrittura della storia è costante: se ad un certo punto si afferma che Bene e Male sono indivisibili, o come già citato che la città è contemporaneamente attratta da oriente e occidente, per descrivere il Klub99, la copertura della setta, Jacques elenca tre cose “musica, francobolli e scacchi: la Morte scombinando la possibile ed evidente duplice lettura: un ritrovo musicale che è il covo di una società segreta. Tra l’altro, c’è un doppio nove nel nome del locale ma pare stia a indicare il temine amen, un significato singolo e definitivo.

Tantissimi gli elementi in questo senso, si diceva: in un film che pullula di persone con qualche menomazione fisica, i ciechi sono ben due, un uomo e una donna; ma se l’uomo torna due volte (raddoppiando ulteriormente) e ha una certa rilevanza nell’indagine, la donna è del tutto ininfluente alla narrazione e sembra messa apposta per creare un diversivo nella possibilità di leggere il raddoppio della presenza del cieco di sesso maschile. Tra le persone menomante, salta all’occhio l’uomo sul carretto dell’incipit che osserva incuriosito lo spazzino trovare il cadavere di Gregory. Questa sua attenzione all’evento tragico, lo accomuna ad un altro personaggio che vediamo sempre in posizione abbassata, ovvero il bibliotecario, che si scopre essere appassionato di cronaca nera. Questi è interpretato da Vjenceslav Kapural che, per quanto non accreditato, data la forte somiglianza potrebbe benissimo essere lo stesso attore che interpreta il disabile ad inizio film.

Il quale, oltre a questo abbinamento, vista la sua difficoltà a deambulare può essere abbinato allo zoppo che lavora nel Klub99. A livello visivo, almeno due carrelli laterali in momenti diversi inquadrano una serie di facce, piuttosto pittoresche, anzi quasi grottesche, attraverso una vetrata e durante un concerto e, oltre al loro reciproco raddoppio, ci si può vedere un abbinamento con i quadri di farfalle, che troviamo naturalmente in due posti diversi, a casa di Gregory e nel Klub99. In ogni caso, la sfilata di facce in platea tornerà anche nel finale, nella panoramica sugli spalti della sala operatoria dell’aula studentesca. Un lavoro maniacale, quello di Lado sulla sua storia, anche in frangenti che poi possono essere tralasciati tanto sembrano, a prima vista, ininfluenti: quando Gregory comincia a ricordare, assistiamo all’intervento dei sanitari nella redazione del giornale presso il quale i nostri protagonisti lavorano. Ad un giornalista è appena venuto un infarto e, in effetti, un episodio tutto sommato dagli effetti simili (collasso cardiaco) verrà diagnosticato successivamente allo stesso protagonista.

Anche l’audio ricalca questo schema ibrido: all’inizio del film, quando lo spazzino trova Gregory a terra, porge l’orecchio al petto per capire se l’uomo è vivo. Si sente un doppio battere, proprio come fosse il cuore; ma il rumore è prodotto dall’uomo senza gambe che avanza col carretto aiutandosi con le mani. In seguito, assistiamo alla corsa in ambulanza, al rumore del battito cardiaco (che peraltro scopriremo essere assente nel petto di Gregory) si affianca in modo angosciante un respiro affannato. Ma oltre a questi due suoni c’è già in sottofondo la sirena dell’ambulanza; e quando quest’ultima sfuma subentra la musica d’orchestra (opera di Ennio Morricone, ben poco armonica e particolarmente inquietante). Un po’ come se i suoni naturali si abbinassero (cuore e respiro) e quelli musicali si alternassero (sirena e orchestra), con un duplice schema.


Infine anche alcuni personaggi della storia, giornalisti stranieri a parte, hanno un ruolo doppio: l’avvocato è anche un importante membro della setta, così come la portinaia, mentre il dottore che chiude con l’autopsia è il sacerdote della setta stessa, ed è riconoscibile dagli occhiali, che sono un raddoppio degli occhi oltre ad essere un oggetto duplice già di suo. Un riferimento simile a quello delle scarpe di pregio del protagonista: sono 'un paio', e tornano in due occasioni distinte. Lado, come si è detto, getta anche una pessimistica traccia politica, ma a lasciare davvero senza speranza lo spettatore è tutto quanto il quadro d’insieme che comunica una sensazione di vertigine, un po’ come se ci si trovasse nella stanza degli specchi del luna park. In questo senso il titolo del film appare quasi più indovinato di quanto prevedibile osservando come si è arrivati alla scelta definitiva.

In effetti in origine la pellicola si doveva intitolare Malastrana, come il quartiere magico di Praga, ma poi era stato scelto La corta notte delle farfalle. Un titolo più in linea con la tradizione dei gialli, i thriller all’italiana, dei primi anni settanta. La presenza nelle sale di Una farfalla con le ali insanguinate (1971, regia di Duccio Tessari) poco prima dell’uscita prevista per il film di Lado, ha quindi spinto i produttori a cambiare nella versione definitiva.

Del titolo previsto precedentemente rimane traccia in una canzone, ma anche nella presenza dei quadri con le farfalle e in un paragone che viene proposto in un dialogo, con le giovani vittime a cui non è permesso di volare via, un po’ come alle farfalle stesse, infilzate dallo spillo ed esposte in vetrina. Di bambole di vetro non c’è invece traccia, però ci sono i lampadari a goccia (ovviamente due in modo insistito, in camera di Gregory e nel Klub99, ma se ne vede uno anche in biblioteca), i cui cristalli dondolando sembrano quasi danzare appunto come piccole bamboline. Questi gemme di cristallo ondeggiano e scompongono la luce, (di cui è fatto anche il film) in una miriade di direzioni (la trama della storia) dietro le quali può vacillare la nostra capacità di comprensione. E perdersi la nostra speranza che una primavera, sia quella di Praga o quella di qualsiasi altra città, (la scelta di non nominarla esplicitamente) possa finalmente compiersi. E le farfalle tornare a volare. 



Ingrid Thulin






Barbara Bach








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