Translate

giovedì 23 maggio 2019

ROMA ORE 11

353_ROMA ORE 11 . Italia, Francia, 1952Regia di Giuseppe De Santis.

Nel 1951, uno spunto tragico della cronaca cittadina della capitale, presta il fianco agli autori (tra i quali, oltre al regista Giuseppe De Santis spicca l’immancabile Cesare Zavattini) per un nuovo esempio di cinema neorealista: Roma ore 11. Il regista è, come detto, Giuseppe De Santis e in questa sua nuova opera si riscontrano alcune analogie con il suo precedente capolavoro Riso amaro: oltre alla denuncia per una generale situazione economico sociale drammatica, c’è un’attenzione alle difficoltà della condizione femminile nel mondo del lavoro. All’interno della quale, è impossibile negarlo, l’autore non rinuncia però ad approfittare di un certo compiacimento nel mostrare la figura, o meglio il corpo, del gentil sesso. Come già nel film ambientato nelle risaie da cui Silvana Mangano è diventata un’icona immediatamente riconoscibile, anche in Roma ore 11 De Santis insiste sulle gambe delle ragazze in coda per il posto da dattilografa, oppure sui maglioncini attillati che ne evidenziano le forme. Del resto le attrici ingaggiate per il suo film non sono certo scelte tra ragazze ordinarie: c’è addirittura Lucia Bosé, miss Italia 1947, e poi Delia Scala, Maria Grazia Francia, Carla Del Poggio e altre ancora, insomma sembra di stare ad una selezione per un concorso di bellezza. Questa caratteristica di De Santis, che potrebbe sembrare una sua debolezza (comprensibile, va detto) ha però anche un significato prettamente cinematografico: all’interno di una corrente così attenta alla rappresentazione credibile e onesta della realtà italiana del dopoguerra qual’era il neorealismo, l’autore non rinuncia alle armi più proprie del cinema, che della rappresentazione sullo schermo di qualcosa di significativo, faceva comunque il suo punto di forza.
In fondo, la Bosé che cammina per la strada, con il suo metro e settantatre di pura eleganza, o la figura armonica di Delia Scala, non distraevano l’attenzione dall’amara riflessione di vedere oltre duecento ragazze in coda per un misero singolo posto di dattilografa. Tuttavia questo aspetto non può rimanere taciuto, visto che se n'erano accorti anche oltreoceano, tanto che il manifesto americano del film recitava in modo assai esplicito: An estraordinary amount of sex appeal, ribadendo che sullo schermo la figura femminile era esaltata anche sul piano prettamente fisico dalla regia di De Santis. Tornando alle condizioni economiche in cui versava il paese nel dopoguerra, queste erano davvero drammatiche ma, nel 1951, era ormai risaputo. In effetti, gli autori sfruttarono un episodio di cronaca avvenuto a Roma, il crollo di una scala interna di un caseggiato per l’eccessivo assembrarsi delle ragazze in fila per un colloquio per un posto di lavoro, per tratteggiare un quadro corale sull’umanità dello stivale. Tra i vari soggettisti, il citato Zavattini aveva la capacità di descrivere con un realismo misurato anche le vicende più strazianti; De Santis aveva già mostrato invece una vena narrativa più intensa sul piano emotivo. In Roma ore 11, la poetica del primo influenza quella del secondo, e quella che vediamo può essere intesa come la versione capitolina, e quindi ancora più italiana, più conforme alle consuetudini del neorealismo, rispetto a Riso amaro, simile nelle tematiche ma forse più vicina alla sensibilità del regista. In entrambi i film l’attenzione principale è posta sulla condizione femminile nel mondo del lavoro, si è detto, che rappresenta una difficoltà nella difficoltà: se è arduo trovare un posto di lavoro nel dopoguerra italiano, figuriamo farlo nei panni di una donna.

Ma se Riso amaro raccontava anche altro, ad esempio dell’influenza del modello americano sulla nostra società, Roma ore 11 sembra piuttosto sfruttare l’occasione di vedere riunite tante ragazze nello stesso posto per fare una panoramica generale sul paese. Ci sono le ragazze povere, quelle ricche ma ribelli, quelle che fanno la vita oppure la serva; c’è chi aveva già un lavoro ma l'ha lasciato dopo essere stata messa in cinta dal capoufficio, e chi ha il padre che faceva il generale, ma adesso è in pensione e non conta più niente. Carrellata folcloristica comunque interessante, certamente, ma il punto nevralgico è ovviamente un aspetto morale: Luciana (Carla Del Poggio) scavalca con uno stratagemma tutta quanta la fila, e quando le ragazze si accorgono del trucco si scatena un parapiglia, la ringhiera cede e con lei la scala stracolma delle fanciulle.
Le scene del crollo, tra le macerie e i voluttuosi corpi doloranti delle sventurate, riportano alla mente gli effetti dei bombardamenti durante la recente guerra mondiale, ma anche i frequenti terremoti che agitano il belpaese. Nemmeno passato lo sgomento, che è subito caccia al colpevole, anche perché una delle ragazze è grave (e morirà di li a poco): l’architetto, il costruttore, il proprietario dell’immobile, il titolare dell’azienda che ha indetto il colloquio di lavoro, la portinaia che ha aperto il cancello… o la ragazza che ha scatenato la reazione rabbiosa delle sue compagne di speranza? Moralmente, perlomeno nella finzione filmica, non ci sono dubbi, è quest’ultima a dover pagare. Perché è troppo difficile, senza cognizioni specifiche di edilizia e di giurisprudenza, stabilire, ad esempio, se la scala doveva reggere tutte quelle ragazza ammassate; è un evento eccezionale, prettamente tecnico e poco significativo in un’opera di massa come è un film.

E’ più semplice, più utile, e soprattutto alla portata di tutti, capire che scavalcare la coda è sbagliato, e inoltre la metafora educativa si presta bene alla vicenda. E’ un vezzo tipicamente italiano, quello di fare i furbi, e quello a cui assistiamo dimostra anche i motivi che ostacolano la crescita sociale e collettiva del paese: per un vantaggio individuale (evitare la coda), si danneggia l’intera comunità (tutte le ragazze cadute nel crollo), finendo per danneggiare lo stesso individuo (la responsabilità morale e il derivante senso di colpa lacerante). Luciana, infatti, rea della furbata è disperata, stretta dai sensi di colpa, visto che, oltretutto, la ragazza che sta morendo era quella con cui aveva fraternizzato.
De Santis sembra scorgerci ancora delle assonanze con Riso amaro, e spedisce Luciana in cima ad una scala improvvisata in luogo di quella caduta, che già era una metafora del tentativo di scalata sociale, ma che ora ricorda anche quella salita dalla Mangano nel tragico finale del film sulle mondine. Arrivata in cima, Luciana si affaccia al vuoto sottostante, tentata di trovare una espiazione per la colpa commessa; che sarebbe un passaggio narrativo forte, esagerato in un contesto realistico (la colpa della ragazza non è certo grave da giustificare un suicidio). Ma darebbe tutto un altro nerbo al finale; invece si predilige una chiusura, per così dire, tipicamente zavattiniana, in cui si mantiene fede al realismo (l’inchiesta è archiviata con un nulla di fatto, e questo, in Italia, è certamente assai realistico), visto che nella cronaca non si parlò di alcun suicidio. Purtroppo, quello che rimane, e questo era un limite fortissimo che affiorava sempre più nella corrente neorealista, è l’impressione che in Italia siamo sempre tutti quanti vittime e nessuno è davvero mai colpevole.    



Lucia Bosè





             
Lea Padovani


Maria Grazia Franzia


Carla Del Poggio


Delia Scala




Nessun commento:

Posta un commento