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martedì 7 maggio 2019

OMBRE ROSSE

345_OMBRE ROSSE (Stagecoach). Stati Uniti, 1939. Regia di John Ford.

Capolavoro assoluto del cinema e del genere western, di cui si dice sia il titolo più famoso, Ombre Rosse del maestro John Ford è naturalmente un film bellissimo. Partendo da un’idea semplice, una diligenza che corre verso ovest i cui individui in viaggio rappresentano le varie anime del paese, Ford riesce a mettere sullo schermo una metafora leggibilissima della conquista del west intesa come nascita della nazione. Ma, accanto al messaggio positivista, di conquista intesa come arrivo della civiltà e di possibilità per (quasi) tutti di riscattare al contempo le proprie eventuali debolezze, il profetico regista di origine irlandese lascia le sue zampate critiche sulla Storia. Il clima positivo del new deal rooseveltiano è avvertibile (il film è del 1939) e, in ogni caso, Ford aveva una naturale ammirazione per il suo paese, per le possibilità che gli si paravano d’innanzi: la nascita della bambina e il suo salvataggio insieme alla madre Lucia (Louise Platt) battezzano simbolicamente il viaggio della diligenza diretta a Lordsburg come una benedizione. Del resto la meta, Lordsburg, suona qualcosa tipo il borgo di Dio e, quindi, che si tratti di una corsa verso la terra promessa è evidente; la nascita di una bambina, mentre il padre gloriosamente serve la comunità sotto le armi, è un segnale dei favori del Destino per la futura nazione. Il manipolo di viaggiatori è davvero eterogeneo: alla guida c’è il postiglione Buck (Andy Devine), il classico tipo che parla sempre, sembra sempre distratto ma è meno scemo di quanto non lo dia da pensare; la sua scorta armata è Charlie Wilcox (George Bancroft), uomo tutto d’un pezzo, pratico e risoluto, ma dotato anche di buon senso. 

In vettura, a fianco della signora Lucia, si accomodano il signor Peacock (Donald Meek), un timido rappresentante di liquori e il giocatore di professione Hatfield (John Carradine), che si prodiga in galanterie e riguardi per la signora in stato di gravidanza. Sulla diligenza vengono poi costretti a salire, letteralmente scacciati da Tonto, dove il convoglio comincia il suo viaggio, il dottor Boone (Thomas Mitchell), un medico sempre troppo ubriaco per poter fare seriamente il suo mestiere, e Dallas (Claire Trevor), una prostituta allontanata dal paese dalle dame per bene della Lega della moralità. All’ultimo, ignaro degli Apache di Geronimo che si aggirano minacciosi sulla strada della diligenza, si aggiunge anche il signor Gatewood, il banchiere di Tonto in fuga coi risparmi dei suoi concittadini. Infine, sulla strada, entra in scena Ringo, a cui basta il semplice stagliarsi nel deserto dell’Arizona e una rapida zoomata per aggiudicarsi il ruolo di protagonista della storia. 

Non per niente ad interpretare l’uomo scappato di prigione in cerca di vendetta, è chiamato John Wayne, che entrerà, con quella semplice comparsa sullo schermo, nella leggenda del cinema. Per la maggioranza dei personaggi il viaggio sarà un’occasione importante: c’è chi riscatterà la discutibile condotta morale della propria vita con un gesto eroico e tragico, come Hatfield, in linea con i suoi ideali romantici di gentiluomo del Sud; oppure chi sopporterà stoicamente la propria condizione di uomo senza coraggio senza perdere la propria dignità, come Peacock. Buck e Charlie, pur con le loro differenze, fanno la loro parte con professionalità e coerenza; e, nel finale, si riscoprono più saggi, almeno il secondo certamente. 

Anche Lucia, oltre a coronare con successo la propria maternità, si rende conto dei suoi pregiudizi, quando rivolge a Dallas la stessa identica disponibilità di aiuto che la prostituta le aveva, a sua volta, offerto in precedenza; e che la dama per bene aveva sdegnosamente rifiutato. Il dottor Boone, autore principale del miracolo della nascita nella stazione di cambio, è il personaggio che compie l’impresa più ardua: dal fango in cui si trovava, si ripulisce dal vizio (l’alcol), torna ad essere un medico a tutti gli effetti e fa il suo dovere alla grande. Questi personaggi costituiscono, simbolicamente, è ovvio, il corpo della collettività della futura nazione, quella che si va costituendo con la conquista del west. Mancano però all’appello ancora tre elementi. Il primo è il banchiere: per lui nessun riscatto ma, al contrario, viene smascherato e imprigionato. La fine che Ford vorrebbe per tutti gli affaristi e speculatori.  Poi ci sono i due fuorilegge: Ringo e Dallas. 

Per loro, posto nella società non ce n’è. La collettività (i partecipanti al viaggio) riconoscono le qualità dei due, il loro valore ma, ugualmente, non provano a fermarli, anzi, ne incoraggiano la fuga in Messico. I futuri Stati Uniti d’America non sono un posto per chi è vittima del pregiudizio, sia esso legittimo o meno. In questo senso il film rovescia completamente il suo aspetto positivo che l’arrivo con successo della diligenza, addirittura con un neonato a bordo (efficace simbolo di vita), sembrava significare. Ultima nota per gli indiani: in questa storia la figura dei pellerossa non è vista in luce negativa, nonostante la fama che grava su questa pellicola. In Ombre Rosse gli apache sono solo il simbolo delle ostilità che si incontrano nel processo di civilizzazione del paese; possono essere equiparati alle forze della Natura che l’uomo (bianco) da sempre assoggetta per insediare le proprie comunità. 
La loro presenza è solo incombente per tutta la vicenda (da cui l’efficace titolo italiano) e si materializza troppo in ritardo, dopo il guado del fiume, e quindi a giochi già praticamente fatti. In questa loro esclusione dalla storia, c’è già tutta la lungimiranza di Ford nel comprendere la questione indiana: nella nascente America non ci sarà posto nemmeno per i pellerossa.     

















Louise Platt


Claire Trevor





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