345_OMBRE ROSSE (Stagecoach). Stati Uniti, 1939. Regia di John Ford.
Capolavoro assoluto del cinema e del genere western, di cui
si dice sia il titolo più famoso, Ombre
Rosse del maestro John Ford è naturalmente un film bellissimo. Partendo da
un’idea semplice, una diligenza che corre verso ovest i cui individui in
viaggio rappresentano le varie anime del paese, Ford riesce a mettere sullo
schermo una metafora leggibilissima della conquista
del west intesa come nascita della
nazione. Ma, accanto al messaggio positivista, di conquista intesa come
arrivo della civiltà e di possibilità per (quasi) tutti di riscattare al
contempo le proprie eventuali debolezze,
il profetico regista di origine irlandese lascia le sue zampate critiche sulla
Storia. Il clima positivo del new deal
rooseveltiano è avvertibile (il film è del 1939) e, in ogni caso, Ford aveva
una naturale ammirazione per il suo paese, per le possibilità che gli si
paravano d’innanzi: la nascita della bambina e il suo salvataggio insieme alla
madre Lucia (Louise Platt) battezzano simbolicamente il viaggio della diligenza
diretta a Lordsburg come una benedizione. Del resto la meta, Lordsburg, suona qualcosa tipo il borgo di Dio e, quindi, che si tratti di una corsa verso la
terra promessa è evidente; la nascita di una bambina, mentre il padre gloriosamente
serve la comunità sotto le armi, è un segnale dei favori del Destino per la futura nazione. Il manipolo di viaggiatori è
davvero eterogeneo: alla guida c’è il postiglione Buck (Andy Devine), il
classico tipo che parla sempre, sembra sempre distratto ma è meno scemo di quanto non lo dia da pensare;
la sua scorta armata è Charlie Wilcox (George Bancroft), uomo tutto d’un pezzo,
pratico e risoluto, ma dotato anche di buon senso.
In vettura, a fianco della
signora Lucia, si accomodano il signor Peacock (Donald Meek), un timido
rappresentante di liquori e il giocatore di professione Hatfield (John
Carradine), che si prodiga in galanterie e riguardi per la signora in stato di
gravidanza. Sulla diligenza vengono poi costretti a salire, letteralmente scacciati
da Tonto, dove il convoglio comincia il suo viaggio, il dottor Boone (Thomas
Mitchell), un medico sempre troppo ubriaco per poter fare seriamente il suo
mestiere, e Dallas (Claire Trevor), una prostituta allontanata dal paese dalle
dame per bene della Lega della moralità.
All’ultimo, ignaro degli Apache di Geronimo che si aggirano minacciosi sulla
strada della diligenza, si aggiunge anche il signor Gatewood, il banchiere di
Tonto in fuga coi risparmi dei suoi concittadini. Infine, sulla strada, entra
in scena Ringo, a cui basta il semplice stagliarsi nel deserto dell’Arizona e
una rapida zoomata per aggiudicarsi il ruolo di protagonista della storia.
Non
per niente ad interpretare l’uomo scappato di prigione in cerca di vendetta, è
chiamato John Wayne, che entrerà, con quella semplice comparsa sullo schermo,
nella leggenda del cinema. Per la maggioranza dei personaggi il viaggio sarà
un’occasione importante: c’è chi riscatterà la discutibile condotta morale
della propria vita con un gesto eroico e tragico, come Hatfield, in linea con i
suoi ideali romantici di gentiluomo del Sud; oppure chi sopporterà stoicamente
la propria condizione di uomo senza coraggio senza perdere la propria dignità,
come Peacock. Buck e Charlie, pur con le loro differenze, fanno la loro parte
con professionalità e coerenza; e, nel finale, si riscoprono più saggi, almeno
il secondo certamente.
Anche Lucia, oltre a coronare con successo la propria
maternità, si rende conto dei suoi pregiudizi, quando rivolge a Dallas la
stessa identica disponibilità di aiuto che la prostituta le aveva, a sua volta,
offerto in precedenza; e che la dama per
bene aveva sdegnosamente rifiutato. Il dottor Boone, autore principale del
miracolo della nascita nella stazione di cambio, è il personaggio che compie
l’impresa più ardua: dal fango in cui
si trovava, si ripulisce dal vizio (l’alcol), torna ad essere un medico a tutti
gli effetti e fa il suo dovere alla grande. Questi personaggi costituiscono,
simbolicamente, è ovvio, il corpo della collettività della futura nazione,
quella che si va costituendo con la conquista del west. Mancano però
all’appello ancora tre elementi. Il primo è il banchiere: per lui nessun
riscatto ma, al contrario, viene smascherato e imprigionato. La fine che Ford
vorrebbe per tutti gli affaristi e speculatori.
Poi ci sono i due fuorilegge:
Ringo e Dallas.
Per loro, posto nella società non ce n’è. La collettività (i
partecipanti al viaggio) riconoscono le qualità dei due, il loro valore ma,
ugualmente, non provano a fermarli, anzi, ne incoraggiano la fuga in Messico. I
futuri Stati Uniti d’America non sono un posto per chi è vittima del
pregiudizio, sia esso legittimo o meno. In questo senso il film rovescia
completamente il suo aspetto positivo che l’arrivo con successo della diligenza,
addirittura con un neonato a bordo (efficace simbolo di vita), sembrava
significare. Ultima nota per gli indiani: in questa storia la figura dei
pellerossa non è vista in luce negativa, nonostante la fama che grava su questa
pellicola. In Ombre Rosse gli apache
sono solo il simbolo delle ostilità che si incontrano nel processo di
civilizzazione del paese; possono essere equiparati alle forze della Natura che
l’uomo (bianco) da sempre assoggetta
per insediare le proprie comunità.
La loro presenza è solo incombente per tutta la vicenda (da cui l’efficace titolo
italiano) e si materializza troppo in ritardo, dopo il guado del fiume, e
quindi a giochi già praticamente fatti. In questa loro esclusione dalla storia, c’è già tutta la lungimiranza di Ford nel
comprendere la questione indiana: nella
nascente America non ci sarà posto nemmeno per i pellerossa.
Louise Platt
Claire Trevor
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