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domenica 19 maggio 2019

DRIVER L'IMPRENDIBILE

351_DRIVER L'IMPRENDIBILE (The Driver)Stati Uniti, 1978. Regia di Walter Hill.

Walter Hill è un vero califfo con le acrobazie visive e il ritmo narrativo e, quindi, riesce a distrarci e fino all’ultimo, a non farci pensare alla teoria hitchcockiana del MacGuffin. Per cui, per un attimo, quando vediamo la polizia schierata alle spalle del nostro protagonista, il driver (Ryan O’ Neal, perfetto), un sospetto che possa andare a finire così ci soggiunge. Certo, sarebbe una sconfitta per il protagonista della nostra storia, il suddetto driver, ma tant’è; in fondo, che non è un personaggio vincente lo avevamo già capito non avendo il nostro una causa, una motivazione, per cui rischiare sempre il tutto per tutto. Di fatto driver è un perdente per definizione, che sublima la sconfitta nell’impeccabile esecuzione con la massima efficienza delle missioni di cui si fa carico, coronate con l’inevitabile successo. Successo però senza un fine e senza una via di uscita, e quindi mai realmente liberatorio, come invece una vittoria dovrebbe soprattutto essere. Ma... può essere un’ipotesi attendibile che a vincere sia il detective (un altrettanto perfetto Bruce Dern)? No, troppo dura da digerire. E allora, mentre il driver si incammina per portare la valigetta al poliziotto, ci ritornano in mente le parole di Hitchcock: ma certo, la valigia è solo un Macguffin. Ma se il Macguffin è abitualmente un mero pretesto e quindi non è importante in sé, cosa può essere in un film che è praticamente un pretesto nel suo insieme? Un qualcosa di ancora minore, che sottrae ulteriormente, che smonta: nel nostro caso le prove per incastrare il driver, lasciando così il detective con un palmo di naso. Geniale Hill, come suo solito: non è successo niente, solo qualche inseguimento, qualche criminale inevitabilmente morto ammazzato, ma niente di che. 

Tra l’altro, i soldi della rapina organizzata come esca dal detective, vengono pure recuperati, e quindi sembra proprio che abbia ragione chi ritiene Driver l’imprendibile un semplice esercizio di pura azione adrenalinica. Ma se il film lo abbiamo davvero guardato, sappiamo bene che non è così. Oddio, l’adrenalina c’è tutta, e le sequenze di inseguimento con le auto sono tra le migliori mai realizzate. Da ricordare, in modo specifico, sempre in tema di automobili a tutto gas, la caccia (perché non è un semplice inseguimento) poco prima del finale, quando Driver con un pesante furgone Chevrolet C-10 gioca a nascondino mentre insegue una Pontiac Firebird Trans Am, oppure la sequenza in cui il nostro demolisce una povera Mercedes-Benz 280 S arancione fiammante, in un parcheggio sotterraneo. 

Ma tutto questo rincorrersi, alla fine si rivela essere niente più che un gioco; non a caso il terzo personaggio è la giocatrice, ovvero Isabelle Adjani, perfetta pure lei, manco a dirlo. E non si tratta di fare un elogio alla scarsa capacità espressiva: sia Neal che la Adjani sono adatti in modo preciso ad una rappresentazione figurativa per cui la loro minima comunicativa facciale è ideale al tenore dell’opera. Dern rimane sopra le righe, come suo solito, e serve per caratterizzare il vero cattivo della storia che, un po’ clamorosamente anche se siamo negli anni ‘70, è il poliziotto di turno. 
E’ quindi una partita, una gara; del resto, della partita è appunto anche la giocatrice, e il detective, al suo sottoposto, fa un discorso programmatico sulle competizioni sportive da prendere a modello per dare la caccia ai criminali. E quindi possiamo dedurre che si tratta di una versione moderna di guardie e ladri, intesa in modo ludico, visto che il driver non vorrebbe nemmeno che ci fossero in gioco le armi da fuoco. Quello che va in scena è così un giro dell’oca d’azzardo, coi personaggi che si conoscono già bene (manca totalmente la fase di indagine) e passano il tempo inseguendosi continuamente in tondo. 

Questi personaggi sono proprio come i segnalini dei giochi da tavolo, figure bidimensionali, e non solo perché O’Neal è più che altro un bel fusto o la Adjani una bambolina (e per di più nel film non possiedono nomi propri). Sullo schermo i personaggi si vedono spessissimo attraverso un vetro o segnati da un riflesso; il driver ad un certo punto addirittura da due, quello del vetro anteriore a cui si sovrappone quello del vetro posteriore, schiacciando il nostro eroe nell’esiguo e inesistente spazio tra i due riflessi. Questa mancanza di spazio rende sì i nostri personaggi semplici figurine ma, nello stesso tempo, li lascia anche senza possibilità di uscita. Non c’è scampo, per i personaggi di questo carosello: da questo gioco si esce solo morendo, e nel film questo è evidenziato in modo esplicito. 

Il galoppino che ritira i soldi della rapina, finisce morto ammazzato e rotola fuori dal finestrino del treno; Hill indugia sul cadavere mentre si vede il convoglio continuare la sua corsa. Il personaggio è uscito dal gioco, ma il gioco continua. I due banditi da strapazzo, scampati alla caccia tra le auto, escono dalla vettura distrutta uscendo dai finestrini; uno viene ammazzato, l’altro solo allontano. Non era uno della gang, ma solo un amico; visto che non fa parte del gioco può salvare la pelle, ma deve sparire. Il capo di questi banditi è invece freddato in pieno parcheggio: il driver gli spara attraverso i vetri della portiera della sua meravigliosa Pontiac Firebird, e quindi il concetto sembra essere simile. 
In questo caso è la morte che passa e si fa strada attraverso il finestrino per ghermire la sua vittima. L’unica che è libera di andarsene è la giocatrice: nel finale osserva la scena della valigetta. E’ ripresa in un riquadro delle finestre nella stazione, proprio come una figurina con tanto di cornice. Osserva e, quando vede che non ci sono più soldi in ballo, si defila come se niente fosse. Attenzione, quindi, sembra dirci Hill: non è più tanto importante chi è più bravo nella competizione, (ossessione del detective), o chi è più veloce ed efficiente (ossessione del driver). Vince chi è più scaltro, e sa quando è il momento di rischiare e quando quello di lasciare.
Gli anni settanta si preparavano a diventare gli anni ottanta.


Isabelle Adjani







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