349_IL DELITTO MATTEOTTI . Italia, 1973. Regia di Florestano Vancini.
A partire dagli anni 60, in Italia si sviluppò una fiorente corrente
politico-civile all’interno della cinematografia nazionale: nella maggioranza
dei casi, si trattava di temi contingenti all’inasprimento della battaglia
politica che avrebbe raggiunto il suo culmine nelle contestazioni di fine
decennio, e avrebbe marchiato a fuoco
(di mitra ed esplosivi) i successivi anni
di piombo. Francesco Rosi, il regista che aveva inaugurato il genere (Salvatore Giuliano, 1962 e Le mani sulla città, 1963) sembrò
focalizzarsi sui problemi del mezzogiorno, poi Elio Petri e Damiano Damiani con
il loro valido contributo metteranno a nudo i problemi dell’intera Italia,
incapace di gestirsi in modo socialmente giusto ed equo. Giuliano Montaldo con
i suoi film storici (Sacco e Vanzetti,
1971, Giordano Bruno, 1973)
approfondì il discorso mostrando, in un certo senso, l’origine tradizionale
dell’ingiustizia sociale. Il delitto
Matteotti di Florestano Vancini non fu quindi un fulmine a ciel sereno: era
un testo fortemente politico di matrice storica e, come abbiamo visto,
pienamente nel solco del filone in auge al tempo. Eppure, forse per la messa in
scena senza giri di parole, tanto che il succo del racconto filmico sembra una
requisitoria di un tribunale, a cui fa d’apice l’esplicita accusa a Mussolini
di avere ordinato l’assassino in oggetto alla storia, rendono l’opera di
Vancini di notevole impatto. Vancini non ha dubbi e non ne instilla: il che non
è ne un pregio ne un difetto, a priori, sia chiaro. Ma a suo favore va detto
che il suo racconto è preciso, dettagliato, storicamente fedele ai resoconti; il
ritmo è incalzante e non fa prigionieri, quelle che c’era da dire
Vancini lo dice chiaro e tondo come un ceffone in faccia.
Ovviamente,
all’interno della cronaca dei fatti, l’inchiesta che cercò di far luce in modo
ufficiale su quanto accaduto, ovvero l’uccisione del segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti, non farà tanta strada. In Italia è
sempre storicamente difficile fare chiarezza sulle cose, figuriamoci se poteva
esserlo alle soglie di una dittatura. Ma è proprio l’aspetto investigativo del
film che mette in luce la finezza del regista, già evidente dal punto di vista
della scelta degli attori. Per tutti i ruoli politici e importanti, Vancini ricorre a scelte sicure, attori
azzeccati e già rodati nel cinema sociale:
chi meglio di Franco Nero, (interprete già visto, all’interno del genere, nei film di Damiano Damiani),
può essere una figura eroica come Giacomo Matteotti?
Bravissimi anche Mario
Adorf (Benito Mussolini) e Gastone Moschin (Filippo Turati), che erano stati
con lo stesso Vancini nel precedente La
violenza: quinto potere che, pur se di derivazione teatrale, era comunque
un testo di denuncia sociale. In quel cast c’era anche Riccardo Cucciolla (in Il delitto Matteotti è un Antonio
Gransci quasi caricaturale), che va però più che altro ricordato nel ruolo di
Nicola Sacco in Sacco e Vanzetti di
Giuliano Montaldo. Ma si diceva dell’inchiesta: in seguito al delitto vengono
incaricati di indagare l’illustre Mauro Del Giudice e il magistrato di aperte
simpatie fasciste Umberto Tancredi: per il primo, Vanzelli sceglie un monumento
del cinema italiano, Vittorio De Sica, davvero in gran spolvero; per il
secondo, del tutto inaspettatamente, troviamo Renzo Montagnari, il re delle
commediole erotiche che già furoreggiavano al tempo. Nel rapporto tra questi
due personaggi tra loro agli antipodi, c’è una delle note più interessanti del
film: De Sica/Del Giudice rappresenta l’ideale italico d’annunziano, con un
solenne senso delle istituzioni, al cui cospetto Tancredi/Montagnari
sembrerebbe quasi rimpiangere le
curve delle attricette sexy. In fondo che è successo?
Qualcuno cercava guai e
li ha trovati. Ma c’è un quasi, ed è
dovuto al fatto che, a sorpresa, Tancredi, che è fascista dichiarato, sembra
fin troppo dubbioso. Montagnari, il tipico italiano della porta accanto,
perfetto anche nel suo essere ideale terreno per il germe fascista, è
bravissimo, nel dare corpo all’impotenza di chi si trova quasi costretto ad
ammettere che deve fare una cosa giusta, semplicemente perché è giusto farla.
Certo, controvoglia, malvolentieri, quello che volete; ma sembra proprio in
modo ineluttabile. Un moto che non t’aspetti in tale espressione di mediocrità
che è l’italiano medio, e quando Tancredi chiede a Del Giudice se ha già preparato i
mandati di arresto per i due gerarchi fascisti correi dell’assassinio di
Matteotti, perché intende firmarli, è come se in quegli autografi certificasse
che un minimo di dignità l’italiano medio ce l’ha.
E anche se questa associazione di idee fosse la cosa storicamente meno
attendibile del film, ce la facciamo andar bene lo stesso.
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