321_L'AMARO CASO DELLA BARONESSA DI CARINI . Italia, 1975; Regia di Daniele D'Anza.
Episodio
esemplare nella grande tradizione RAI degli sceneggiati degli anni
settanta, L’amaro caso della baronessa di Carini è un’opera di
rara bellezza anche in un contesto, quello di suddette produzioni televisive
della rete nazionale, che sfornava abitualmente prodotti di qualità. Le quattro
puntate, per un totale complessivo di 259 minuti, sono avvincenti e si lasciano
facilmente divorare dallo spettatore. Il racconto filmato ha
in generale un ottimo ritmo, con un finale di grande emozione, ma tutti e
quattro capitoli sono ben cadenzati. Il primo intriga, il secondo mette un po’
di legna in cascina, ma prima che possa appesantirsi la trama, decolla nel
terzo segmento, fino al rush finale dell’ultima puntata: notevole partitura
ritmica della narrazione. Da un punto di vista visivo, la fotografia non è
certo paragonabile a quella di una produzione cinematografica, ma è a colori
(sebbene la RAI
al tempo trasmettesse ancora in bianco e nero) e nel complesso il regista muove
il suo obiettivo con buona personalità, con movimenti di macchina anche di
rilievo, in genere poco comuni alle opere di finzione televisiva. La trama, da
un’idea di Daniele D’Anza e Lucio Mandarà, è strutturata su due livelli, quello
che trae spunto dalle vicende storiche del 1500, quando la baronessa di Carini
venne uccisa dal padre, e quello completamente frutto di fantasia ambientato ai
primi del 1800. L’impostazione è perfettamente funzionale sotto molti aspetti:
ovviamente gli sviluppi dei due intrecci procedono quasi in contemporanea, con
la traccia più recente che, sempre più pericolosamente, ricalca quella tragica
i cui esiti finali sono già conosciuti.
Inoltre, se il ripescare una storia del
XVI secolo può aiutare per comprendere alcune dinamiche le cui eredità sono
ancora diffuse ai giorni nostri, la scelta di ambientare la vicenda più recente
comunque in un’epoca come l’ottocento, piuttosto che nel presente, permette di
mantenere inalterato, nel complesso del film, il fascino dell’atmosfera
‘storica’. E appunto il periodo storico in cui si muove il protagonista Luca
Corbara (Ugo Pagliai, impeccabile) è poi emblematico per significare la
ritrosia tipicamente siciliana (e di riflesso italiana) di vedersi privati di
qualunque forma di privilegio, anche quello palesemente più iniquo. L’avvento
di una Costituzione, nella storia raccontata, avrebbe tolto dalle
mani dei nobili il potere di vita e di morte sul feudo: la fine del medioevo in
senso pratico e concreto del termine.
Considerato che gli avvenimenti
dell'investigazione sono ambientati nel 1812, ovvero in epoca non così remota,
fa una certa impressione assistere al comportamento da ‘sovrano assoluto’ del
barone don Mariano D’Agrò, interpretato in modo magistrale dal grande Adolfo
Celi, che sembra quasi sguazzare nella parte dell’aristocratico. A suo fianco
risplende ed illumina via via sempre più la scena la meravigliosa Janet Agren
nei panni della baronessa donna Laura; ma tutto il cast è di grandissimo
livello, da una giovanissima Enrica Bonaccorti (Cristina, personaggio subdolo
ma interessantissimo), a Guido Leontini (il viscido notaio) fino all’ottimo
Vittorio Mezzogiorno (in un doppio ruolo che esalta il suo aspetto ambiguo e
poco rassicurante). Gli intrighi, che si snodano, come detto, su un due piani
contemporaneamente, sono un po’ complicati da seguire, e in fin dei conti la
scelta di inserire un personaggio/narratore (il bravo Paolo Stoppa, nel film
don Ippolito) che aiuta lo spettatore a dipanare la matassa è un altro colpo
messo a segno dal regista Daniele D’Anza.
Indovinata, tra l’altro, la
connotazione umoristica conferita al suddetto don Ippolito, che vive in una
casa in mezzo ad animali domestici da fattoria e, ad un certo punto, porta una
sorta di lutto per la dipartita di Angela, la sua gallina preferita; lutto che
fa però scontare al povero Luca, che è costretto a non dormire
nell’abituale letto, dove era solito appollaiarsi anche il volatile, ma deve
posare il materasso per terra. Questi siparietti comici sono un altro tocco
sublime degli autori, e servono in modo assolutamente necessario e
perfettamente funzionale, a stemperare di tanto in tanto la pesante atmosfera,
frutto delle losche trame della vicenda ma soprattutto del formidabile, anche
se angosciante, commento musicale.
Perché
quello sonoro, con la lugubre ma affascinante Ballata di Carini,
(testo di Otello Profazio, musiche di Romolo Grano, cantata da Luigi Proietti)
è uno degli assoluti punti di forza dell’opera. Il passaggio
musicale diventa strepitoso quando supporta la scena clou, che torna
ripetutamente nell’opera, una volta a puntata, con continui aggiornamenti e
sovrapposizioni dei personaggi della trama più recente a quelli ispirati al
poemetto che riprende l’antico fatto di sangue. E a proposito della scena dell’antico
delitto, tra i colpi geniali degli autori, di un’opera che non ha praticamente
punti deboli, va sicuramente ricordata l’impronta della mano insanguinata lasciata
dalla povera baronessa sul muro in quella circostanza e che, si dice, negli
anniversari veda rinvigorirsi il colore. Un colpo ad effetto tipico del cinema
dell’orrore, che qui funziona alla grande come elemento di forte valenza
evocativa.
Il
finale, sconvolgente per il suo aderire alle più fosche previsioni di don
Ippolito, (che si era paragonato a Cassandra), spiazza certamente oggi più di
allora, perché può sembrare incredibile che una produzione televisiva
anteponesse i criteri artistici a quelli più conformisti che impongono il lieto
fine per questo tipo di lavori. Ma il finale così amaro, del resto anticipato
sin dal titolo dell’opera, ha una potenza tale che è difficile ignorare come la
sua valenza superi i confini della finzione raccontata. Gli anni settanta erano
nella loro fase più acuta, più critica, e il panorama doveva sembrare davvero
fosco se alla televisione di stato permettevano che un importante produzione di
prima serata mettesse in scena una storia nella quale per i personaggi positivi
non vi fosse alcun futuro. Non c’è speranza, infatti, per Luca Corbara, per
donna Laura, per il loro amore (illegittimo, d’accordo, ma giustificato nel
finale dalla storia tra don Mariano e
Cristina), per l’amicizia (Luca tradito dall’amico), per la giustizia
(considerato l’esproprio del feudo di Daina Sturi), per la fiducia nelle
istituzioni (la forte adesione dei paesani di Carini ai Beati Paoli, una società clandestina, una sorta di stato nello stato che ricorda altre e
peggiori forme di associazione segrete tipicamente italiane). Erano davvero
duri gli anni settanta in cui vide la luce questo film, non a caso definiti
anche anni di piombo: ma i nostri
problemi di allora, l’ingiustizia sociale, il sopruso, la violenza innata e
diffusa, non erano legati a quei tempi. O almeno, guardando L’amaro caso della baronessa di Carini,
ci si fa l’idea che siano tradizioni ben radicate nel paese e, stando a come
finisce la storia di D’Anza e Mandarà, per nulla indebolite dall’evoluzione in
chiave moderna dello stato. Nessuna speranza, insomma, profetizzavano gli
autori, manco fossero, anche loro, novelle Cassandre; ma è difficile, a distanza di oltre
quarant’anni, dargli torto.
Enrica Bonaccorti
Janet Agren
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