319_QUEL TRENO PER YUMA (3:10 to Yuma). Stati Uniti 1957; Regia di Delmer Daves.
Quel treno per Yuma
è un film in bianco e nero di Delmer Daves; nel 1957 per i western era forse
più consono l’uso del colore, ma la scelta del regista appare particolarmente
azzeccata. Le immagini a colori offrono una gamma di possibilità in più, è
vero, i toni caldi, accesi, o al contrario meno intensi: ma forse solo il
bianco e nero può risultare perfetto nella sua essenzialità. La fotografia di
Charles Lawton Jr. è splendida e Daves pone particolare cura nella resa delle
inquadrature delle scene, con l’uso di sapienti carrelli perlopiù verticali, ad
illustrare con rigore e senza angoli bui lo sviluppo della vicenda. E poi il
bianco e nero nel western pienamente classico rimanda
naturalmente a Mezzogiorno di
fuoco, il film del 1952 di Fred Zinnemann: proprio come il bianco è
speculare al nero, anche il film di Daves si specchia in quello di Zinnemann,
rovesciandone i presupposti. Se in Mezzogiorno
di fuoco si attende il treno che porta il cattivo in città, in Quel treno per Yuma lo si aspetta per
caricarcelo e condurlo via, al penitenziario; e se il cattivo nel primo film è
una figura minacciosa e incombente, nel secondo ha l’aspetto sornione e
amichevole di un eccellente, al solito, Glenn Ford che, al contrario, è
costantemente al centro della scena. E proprio l’attore nato in Canada
rappresenta un altro ribaltamento di Quel
treno per Yuma: la star del film è quindi il cattivo, mentre nel ruolo del buono
troviamo l’anonimo, ma più che lodevole, Van Heflin.
E anche la figura femminile nella storia ricalca questo schema, perché se, in High noon, il personaggio interpretato da Grace Kelly scongiurava Gary Cooper, nel ruolo di sceriffo, di lasciar perdere la contesa, nel film di Daves è proprio la moglie di Dan (ovvero il personaggio di Van Heflin) a spronarlo a farsi valere, sebbene naturalmente poi sembri pentita a fronte dei rischi corsi dal marito. Cosa insolita per il genere western, ma comune al film di Zinnemann, è la suspense, sebbene di connotazione un po’ diversa, anzi, potremmo dire anche in questo caso rovesciata rispetto al precedente.
In Mezzogiorno di fuoco ad alimentare la tensione è l’attesa per uno scontro inevitabile; in Quel treno per Yuma c’è una scena che esprime in modo esplicito la situazione: Dan tiene sotto tiro Ben Wade (il bandito interpretato da Ford) dentro ad una camera di albergo, in attesa della fatidica ora di arrivo del treno. Ad un certo punto Wade prova una sortita, Dan la rintuzza, ma senza sparare: a quel punto è chiaro a tutti che difficilmente l’uomo avrà lo stomaco di ammazzare il bandito, e questo pone Dan, pur se armato col fucile, in una situazione di debolezza e sottoposto ad una tensione enorme. Non è, quindi, l’attesa di qualcosa di inevitabile, ma piuttosto l’attesa di un evento che potenzialmente può succedere in ogni momento, ma non accadrà.
Perché Wade, ora della fine, non vorrà più scappare e lo dimostrerà in modo più che chiaro nel bellissimo finale. Ancora a differenziarsi dal capolavoro di Zinnemann, che finiva con la stella nella polvere dopo che tutte le istituzioni avevano tradito lo sceriffo, Quel treno per Yuma ha un finale positivo anche in senso collettivo e non solo per il protagonista. Il quadro generale è tutto sommato confortante: l’ubriacone che riscatta una vita da vigliacco morendo come un eroe, l’affarista costretto, sebbene suo malgrado, a restare fino alla fine, l’uomo comune (Dan) che resiste alle tentazioni maligne e si erge ad eroe, proprio di fronte allo sguardo ammirato della moglie e benedetto da una provvidenziale pioggia che arriva a fermare la tremenda siccità. Ma, a rubare la scena a tutti è naturalmente Wade, il cattivo, anzi, il gran cattivo, un uomo capace di uccidere a sangue freddo, di parlare con noncuranza delle sue avventure a prostitute ad una ragazza da sedurre o ad una moglie delusa, o di tentare in modo subdolo la rettitudine di un uomo onesto.
E anche la figura femminile nella storia ricalca questo schema, perché se, in High noon, il personaggio interpretato da Grace Kelly scongiurava Gary Cooper, nel ruolo di sceriffo, di lasciar perdere la contesa, nel film di Daves è proprio la moglie di Dan (ovvero il personaggio di Van Heflin) a spronarlo a farsi valere, sebbene naturalmente poi sembri pentita a fronte dei rischi corsi dal marito. Cosa insolita per il genere western, ma comune al film di Zinnemann, è la suspense, sebbene di connotazione un po’ diversa, anzi, potremmo dire anche in questo caso rovesciata rispetto al precedente.
In Mezzogiorno di fuoco ad alimentare la tensione è l’attesa per uno scontro inevitabile; in Quel treno per Yuma c’è una scena che esprime in modo esplicito la situazione: Dan tiene sotto tiro Ben Wade (il bandito interpretato da Ford) dentro ad una camera di albergo, in attesa della fatidica ora di arrivo del treno. Ad un certo punto Wade prova una sortita, Dan la rintuzza, ma senza sparare: a quel punto è chiaro a tutti che difficilmente l’uomo avrà lo stomaco di ammazzare il bandito, e questo pone Dan, pur se armato col fucile, in una situazione di debolezza e sottoposto ad una tensione enorme. Non è, quindi, l’attesa di qualcosa di inevitabile, ma piuttosto l’attesa di un evento che potenzialmente può succedere in ogni momento, ma non accadrà.
Perché Wade, ora della fine, non vorrà più scappare e lo dimostrerà in modo più che chiaro nel bellissimo finale. Ancora a differenziarsi dal capolavoro di Zinnemann, che finiva con la stella nella polvere dopo che tutte le istituzioni avevano tradito lo sceriffo, Quel treno per Yuma ha un finale positivo anche in senso collettivo e non solo per il protagonista. Il quadro generale è tutto sommato confortante: l’ubriacone che riscatta una vita da vigliacco morendo come un eroe, l’affarista costretto, sebbene suo malgrado, a restare fino alla fine, l’uomo comune (Dan) che resiste alle tentazioni maligne e si erge ad eroe, proprio di fronte allo sguardo ammirato della moglie e benedetto da una provvidenziale pioggia che arriva a fermare la tremenda siccità. Ma, a rubare la scena a tutti è naturalmente Wade, il cattivo, anzi, il gran cattivo, un uomo capace di uccidere a sangue freddo, di parlare con noncuranza delle sue avventure a prostitute ad una ragazza da sedurre o ad una moglie delusa, o di tentare in modo subdolo la rettitudine di un uomo onesto.
Ma sarà lui, alla fine, ad esser conquistato dall’onestà del rivale.
Così funziona il cinema di Delmer Daver: il fascino
seducente dell’onestà.
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