323_SEI SOLO, AGENTE VINCENT (L.A. Takedown). Stati Uniti, 1989; Regia di Michael Mann.
Il talento è una cosa difficile da tenere nascosta;
specialmente al cinema, visto che il lavoro dell’autore viene spiattellato
sullo schermo. In questo caso, in Sei
solo, agente Vincent (titolo italiano, tanto per cambiare, piuttosto arduo
da connettere col testo filmico), lo schermo previsto era quello televisivo,
perché il lavoro di Michael Mann doveva essere una sorta di episodio pilota di
un progetto seriale poi non andato in porto. Di questo aspetto rimangono alcune
tracce: l’importanza data a Los Angeles dal punto di vista visivo, con le
ripetute panoramiche aeree sulla città, o la colonna sonora rockeggiante sulle
note di L.A. woman dei Doors
nell’interpretazione di Billy Idol. Si tratta di classici elementi delle
fiction televisive dell’epoca (e non solo), che per altro non disturbano la
fruizione dell’opera in se stessa. Perché in fin della fiera Sei solo, agente Vincent funziona molto
bene come poliziesco, nel quale, tra l’altro, a detta dello stesso regista,
Mann prese le misure per girare, sei anni dopo, il remake The heat-La sfida, capolavoro con Rober De Niro e Al Pacino. Però è
pericoloso scomodare quel formidabile esempio di cinema degli anni novanta, in
quanto è chiaro che Sei solo, agente
Vincent ne uscirebbe con le ossa rotte sotto tutti gli aspetti, primo fra
tutti il confronto d’attori. Per quanto Scott Plank (Vincent Hanna, il
poliziotto) e Alex McArthur (Patrick McLaren,
il rapinatore), facciano la loro parte, è evidente che si tratta di due attori di
medio cabotaggio, buoni per una fiction o poco più. E tipici di un prodotto
televisivo (e nemmeno dei migliori, ad onor del vero) sono anche i dialoghi, in
particolar modo quelli sul versante sentimentale, davvero troppo didascalici
per essere credibili.
E non si pensi che, in un film d’azione, questo sia un
limite relativo: i rapporti con le rispettive compagne, Lilyan (Ely Pouget),
fidanzata di Vincent, e Eady (Laura Harrington) la ragazza che incontra
Patrick, fanno parte di un gioco di specchi narrativo da non sottovalutare.
Perché Mann, anche in un prodotto come questo, in genere non così raffinato da
questo punto di vista, utilizza un linguaggio narrativo strutturato, con una
serie di rimandi e contro-rimandi che rendono perfettamente comprensibile il
rapporto speculare tra i due uomini al centro della storia. Innanzitutto i due
personaggi sembrano entrambi uscire direttamente dalla serie TV Miami Vice (di cui Mann era il
produttore esecutivo) e, curiosamente, sembra proprio il cattivo, Patrick, ad
assomigliare maggiormente a Don Johnson, che nel telefilm era uno dei detective
protagonisti.
Nella loro vita professionale, tutte e due sono i leader del
proprio gruppo di lavoro: determinati, efficienti, carismatici, a volte anche
sbrigativi. Inoltre, entrambi hanno alle spalle un’organizzazione che lavora
per loro, e qui va detto che è sorprendente la struttura di quella malavitosa.
La simmetria diventa speculare quando i due personaggi si scambiano
ripetutamente i ruoli tra spia e spiato, e quest’idea si rafforza negli
sviluppi sentimentali. All’inizio della storia Vincent è felicemente accasato
(il film comincia con lui e Lilyan che fanno l’amore), mentre Patrick non ha la
compagna; poi le situazioni si rovesciano. Infine, poco prima del finale, quasi
in un montaggio alternato, osserviamo la ricomposizione della coppia dei buoni,
mentre il cattivo rimane di nuovo da solo.
C’è anche un punto di incrocio, tra
queste due storie intrecciate: quando Patrick e Vincent si incontrano
casualmente al parcheggio, si riconoscono e si bevono un caffè insieme, parlando tranquillamente della
loro situazione di avversari. Si, avversari e non nemici, perché c’è una sorta
di rispetto reciproco per le capacità altrui; ma avversari mortali, sia chiaro.
Al di là delle lodevoli e intuibili intenzioni, Mann non riesce comunque,
bisogna ammetterlo, a dare spessore a questi suoi personaggi. Scott Plank non è
troppo credibile quando recita al poliziotto coscienzioso; meglio sembra andare
a Alex McArthur, che deve rendere l’idea di un uomo reso duro e spietato dalle
circostanze, ma il risultato è comunque troppo semplicistico. Pur con questi
presupposti, si intuisce che il poliziotto è un tipo tosto ma onesto e il
bandito è un criminale che però ha un suo codice d’onore: in fondo non c’è
tutta questa differenza, come appunto esplicitato visivamente dalla specularità
della struttura del film. O forse c’è ma, sembra dirci il regista, a difesa del
fuorilegge va riconosciuto che se si incappa nel bivio sbagliato, poi la vita
di porta su una cattiva strada dalla quale è impossibile (o quasi) fare marcia
indietro. E in ogni caso c’è differenza tra l’essere un criminale come Patrick
o come Waingro (Xander Berkeley): Mann dimostra non solo di apprezzare la
coerenza (pur nell’essere un bandito) del primo nei confronti del secondo, ma
anche la superiore efficienza e professionalità (anche se riferite ad attività
illecite) . Il regista sembra infatti mettere in dubbio l’importanza di un
quadro morale per valutare la situazione generale, come se questo fosse
unicamente una convenzione.
Ci sono i buoni e ci sono i cattivi, d’accordo, ma
in fondo possono essere interpretati in modo molto simile, e quindi potrebbe
essere facile cadere in errore. In questo senso si può cogliere la presenza,
all’interno degli agenti della squadra di Vincent, di Bosko, interpretato da
quel Michael Rooker che è stato battezzato cinematograficamente dal lapidario e
folgorante Henry pioggia di sangue
(1986, regia di John McNaughton) che dell’assenza di una struttura morale al
suo interno faceva il suo sconvolgente punto di forza. E’ un peccato, perciò,
che un film tanto ricco di spunti si perda poi nella banalità dei dialoghi
sentimentali o in abbozzi poco approfonditi della trama (come la pista delle
prostitute ammazzate).
Però, che passaggio, quello nel finale: dopo una
violentissima sparatoria, ferito in modo letale, Patrick confida al rivale che
Eady l’ha lasciato, e sta quindi morendo solo come un cane. Ma Vincent non può
permetterlo, e allora si ferma con lui, in un momento di grande solidarietà
umana; il quadro morale c’è eccome, nel cinema di Michael Mann, soltanto non è
quello conformista a cui siamo abituati. L’unica morale che merita rispetto la
fa il valore degli uomini e, in qualche caso, c’è qualcosa di morale in loro
anche se stanno dalla parte sbagliata.
Ely Pouget
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