311_LA RAGAZZA DEL SECOLO (It should happen to You). Stati Uniti 1954; Regia di George Cukor.
Chissà se George Cukor avesse messo in conto che il suo La ragazza del secolo potesse divenire
una sorta di trattato sociopolitico perfettamente calzante anche per l’Italia,
oltre sessant’anni dopo. Per la verità, per quanto mascherato da innocente
commedia con venature sentimentali, il film di Cukor lasciava già al tempo
intendere graffianti osservazioni alla società americana dell’epoca. Ma, forse,
sarebbe sorpreso lui stesso di vedere come il suo film descrive in modo
lampante il punto focale dell’attuale situazione politico sociale del belpaese: l’impressione, per essere
onesti, è che la condizione dell’Italia sia talmente grottesca da ricalcare
perfettamente quella descritta da Cukor in chiave ironico/sarcastica. Nel film
una ragazza comune, Gladys Glover (Judy Holliday), decide di farsi pubblicità
su di un enorme cartellone pubblicitario. Solo nome e cognome, null’altro; del
resto la ragazza non sa fare niente, non ha alcuna particolare attitudine o
qualità. Tralasciando le peripezie narrative per cui la nostra giovane imprenditrice
di se stessa riesce a tappezzare la città con altri cartelloni simili, a fare
da volano alla notorietà della nostra eroina concorrono semplicemente due
fattori. Il primo è la visibilità del nome; il secondo il mistero sul fatto che
non si sa cosa significhi questa campagna pubblicitaria. Il risultato? Gladys
Glover diviene famosissima ed è chiamata a fare da testimonial pubblicitaria
nelle più disparate sedi, da quelle per aziende private ad enti pubblici. Come
si vede, la critica di Cukor è assai pesante, e se graffia, lo fa molto in
profondità colpendo a sangue le nostre più profonde convinzioni sociali.
In
sostanza, se si vuole andare al vero nocciolo della questione del film (e, ahinoi,
della nostra struttura sociale), dobbiamo ammettere che quella che viene messa
alla berlina di un sistema che funziona assai poco e male, è la sua natura
democratica. In democrazia quello che conta è avere consenso; e il film mostra
(e la nostra realtà quotidiana dimostra e conferma) come per avere popolarità
non serva essere capaci di fare alcunché e neppure essere al centro di una
particolare strategia comunicativa. Se il meccanismo che permette di accettare
che una persona senza qualità specifiche possa assurgere alla notorietà non è
certo di difficile comprensione (in definitiva è un cortocircuito, è famosa perché è famosa) il secondo
aspetto sembra cogliere una delle più tipiche inclinazioni del modo di pensare
italiano: se non si comprende la strategia alla base di una campagna
pubblicitaria (ad esempio, come nel film, perché di fatto non c’è), si ha il
campo libero di fare qualsiasi ipotesi. L’assenza di elementi non sconfessa o nemmeno
mette in dubbio una tesi, ma permette di formulare le più disparate teorie: per
la verità, nel film, la gente si chiede cosa ci sia dietro alla campagna
pubblicitaria di Gladys Glover, ma non indugia più di tanto in tal senso.
Fosse
una vicenda ambientata in Italia, ci sarebbero state ipotesi e teorie, più o
meno complottiste, da farne almeno una trilogia. Cukor, da buon americano,
sembra più interessato all’aspetto commerciale dello spunto, rispetto a quello
sociale o politico, per quanto lo conoscesse perfettamente. “L’idea di poter diventare una celebrità
senza essere capace di fare niente, è una nozione molto importante. La
pubblicità può realmente fare questo. Oggi così si fanno i Presidenti degli
Stati Uniti”, queste le sue parole sull’argomento [Gavin Lambert On Cukor; Rizzoli New York, 2000]. Il
film è divertente, anche se la
Holliday è un po’ un mattone da sopportare (anche per via del
doppiaggio terribile di Rina Morelli) e davvero non si capisce come Jack
Lemmon, nei panni del suo vicino di casa (e qui alla sua prima prova sul grande
schermo) si possa innamorare di una simile ragazza.
Forse perché l’amore è più irrazionale della democrazia.
Judy Holliday
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