Translate

lunedì 15 ottobre 2018

COME LE FOGLIE AL VENTO

224_COME LE FOGLIE AL VENTO (Written on the wind). Stati Uniti 1956;  Regia di Douglas Sirk.

Come le foglie al vento è un melodramma diretto da Douglas Sirk: il melò è un genere davanti al quale spesso si prova un po’ di imbarazzo, perché questi film fanno spesso leva sull’uso eccessivo di sentimenti ed emozioni, allo scopo di commuovere e coinvolgere lo spettatore. Tutto vero, ma questo Come le foglie al vento, pur rimanendo pienamente un fiammeggiante melò, è un’opera molto interessante e nient’affatto scontata, oltre che un indiscusso capolavoro. Protagonisti del film sono quattro personaggi, presentati quasi in una sorta di quadro famigliare: Mitch Wayne (Rock Hudson) un geologo, Kyle Hadley (Robert Stack) suo fraterno amico e figlio del petroliere presso il quale Mitch lavora; Lucy (Lauren Bacall) impiegata e in seguito moglie di Kyle; e infine Marylee Hadley (una favolosa Dorothy Malone) sorella di Kyle. Da buon melodramma, il film è congeniato sui sentimenti del quartetto: Marylee ama da sempre Mitch, il quale si innamora però di Lucy, che, a sua volta, cede alle lusinghe della lussuosa corte di Kyle e lo sposa. Il quale, grazie anche alla sua potenza economica, sembrerebbe l’unico individuo soddisfatto del mazzo ma, il diavolo ci mette ovviamente lo zampino, e accade che il giovane rampollo figlio di papà abbia problemi nella procreazione. Questo elemento sarà la crepa che provocherà il crollo dell’intero castello famigliare; il quale, per altro, come vedremo, verteva su una serie di situazioni assai precarie. Si è parlato di diavolo non a caso, in quanto Kyle ha spesso un aspetto luciferino, come nelle scene in cui corteggia Lucy sul suo aereo privato, nelle quali le inquadrature con il viso illuminato da luci rosse ne sottolineano l’ambiguità, mentre in quelle viste attraverso gli occhi della donna ci appare normale. Il rapporto tra i due è comunque ambiguo: inizialmente lui è palesemente fasullo, la corteggia fingendosi seriamente interessato ma è solo una strategia di caccia.

Lei, che inizialmente apprezza ma rimane comunque guardinga, alla fine cede: è davvero coinvolta sentimentalmente o, più borghesemente, scorge l’occasione della vita? E, a sua volta, Kyle, in seguito, è davvero sinceramente innamorato? Più facile che la risposta affermativa sia valida per la seconda domanda, visto che l’uomo smette le sue abitudini dissolute nel momento in cui si unisce alla donna. Lucy, al pari di Mitch, è un personaggio molto borghese, molto a modo, ma, anche per questo, meno facile da decifrare. Il suo amore per Kyle, se c’è, è meno evidente, meno ostentato, rispetto a quello di Marylee per Mitch; per il quale, opportunisticamente, Lucy, per tutto il film non manifesta apertamente interesse ma, a conti fatti, il finale rivela i reali sentimenti della donna.

Il lieto fine di maniera è così rispettato: i protagonisti, Rock Hudson e Lauren Bacall convolano a giuste nozze, ma con tono un po’ triste, dimesso. Sono, in effetti, personaggi un po’ troppo ordinari: Mitch per la verità è il prototipo dell’Eroe Americano nell’interpretazione di Douglas Sirk: bello, forte, onesto, leale. Persino un po’ noioso nel suo essere corretto: alla fine gli si preferisce il più interessante Kyle. Ma la sorte peggiore capita proprio alla Bacall che, nei suoi vestiti eleganti ma al contempo sobri, è apparentemente la regina della pellicola: è infatti di lei che si innamorano i due uomini. In realtà, sullo schermo viene letteralmente spazzata via dalla straordinaria Dorothy Malone (premio Oscar per questa sua interpretazione): Marylee, (e anche il fratello Kyle, a differenza dei nuovi borghesi Mitch e Lucy) brucia di vita ma è prigioniera dell’impossibilità di essere felice. Questa gabbia che rende impotenti i due figli di papà è magnificamente rappresentata da Sirk con Villa Hadley, nella quale spesso sbirciamo dalle finestre, che è il luogo dove si svolge l’intera vicenda e che ci appare proprio come una prigione d’orata.

Al cospetto dei potenti/impotenti Hadley, discendenti in estinzione della vecchia guardia capitalista, i nuovi piccoli borghesi Mitch e Lucy tramano e operano per arrivare ai loro obiettivi. Il film svela quindi anche un aspetto sociale, politico, forse inaspettato in un melò: ma le pulsioni più forti, negli anni 50, sono legate alla famiglia, al suo trasformarsi, e quindi è lì che è opportuno ambientare una storia a tinte forti. Le tensioni interne a questa antica istituzione sono ormai insostenibili: ad esempio, l’emancipazione femminile passa anche dagli atteggiamenti disinibiti di Marylee che il vecchio padre Hadley Senior non è in grado di reggere. In uno straordinario passaggio del film, l’anziano assiste sconfortato al ritorno a casa dei propri figli, uno di nuovo ubriaco, l’altra accompagnata da un poliziotto per aver adescato un ragazzo. 
L’oscena danza a musica altissima a cui si dedica la ragazza una volta in camera, è vista in montaggio alternato con la scena del padre che, al sentire l’indiavolata musica, si sente male fino a morirne. Per chi, come gli Hayden, è dominato dai propri demoni, dalle proprie ossessioni, dai propri desideri, non c’è via di uscita: la stessa struttura circolare del film sottolinea la mancanza di una possibilità di salvezza. Il film comincia infatti con la sua sequenza culminante, e già questo è un colpo di genio che Sirk si può permettere solo perché è in grado di creare l’atmosfera adatta con pochi minuti di montato.

L’artificio che ci porta a ritroso del tempo è quello classicissimo delle pagine del calendario che scorrono all’indietro, mosse dallo stesso vento che irrompe nella casa, trasportando le foglie che girano in vorticosi mulinelli. Questi passaggi visivamente eccessivi e simbolici di Sirk sono eredità dell’espressionismo tedesco e funzionano in un contesto moderno solo grazie alla estrema abilità narrativa del regista: il cinema di Douglas Sirk sembra sempre sul punto di scadere nel volgare, nel grottesco, nel cattivo gusto, ma si ferma giusto un attimo prima, nell’ultimo punto utile e sublime prima del baratro. A titolo di esempio si veda l’imprevedibile scena in cui Kyle, uscendo dal colloquio col dottore e dal quale ha saputo di essere sterile, si ferma un attimo a guardare un bambino cavalcare selvaggiamente un cavallo giocattolo. Un allusione talmente esplicita che c’è il rischio che, per paradosso, qualcuno possa non coglierla. Tutto il lungo flashback ci riporta al punto di partenza, il momento in cui Marylee, personaggio disperato ma straordinario, dopo aver causato la morte del padre, provoca incidentalmente anche la morte del fratello. Se, nel primo caso, l’accostamento era solo simbolico, e dovuto alla sua condotta dissoluta, nel caso della morte di Kyle l’intervento della ragazza è più diretto, ma comunque incidentale, e rivolto, nelle intenzioni, a salvare Mitch. E’ vero che la situazione di pericolo per Mitch era stata causata dalla stessa ragazza, che aveva istigato Kyle, ma la grandezza del personaggio interpretato dalla Malone è proprio il suo faticare, il suo faticare nel trovare la scelta giusta da fare. Come nel processo finale, dove è tentata dall’accusare Mitch ma, alla fine, dice la verità, scagionandolo e permettendo a lui e a Lucy di defilarsi nel lieto fine certamente un po’ troppo ordinario e probabilmente non solo in ossequio allo produzione. Perché il vero finale è tutto per Marylee, vestita non più da diva ma in severi abiti professionali, seduta malinconicamente nello studio nel padre, accarezzando in modo osceno una statua a forma di torre petrolifera. Volgare, forse, ma certamente più ardente di vita della smunta coppia di fin troppo tipici americani convolati nell’happy ending di maniera.
Interpreti ideali del fascino banale della middle class.







Lauren Bacall



Dorothy Malone












Nessun commento:

Posta un commento