224_COME LE FOGLIE AL VENTO (Written on the wind). Stati Uniti 1956; Regia di Douglas Sirk.
Come le foglie al
vento è un melodramma diretto da Douglas Sirk: il melò è un genere davanti al quale spesso si prova un po’ di
imbarazzo, perché questi film fanno spesso leva sull’uso eccessivo di
sentimenti ed emozioni, allo scopo di commuovere e coinvolgere lo spettatore.
Tutto vero, ma questo Come le foglie al
vento, pur rimanendo pienamente un fiammeggiante melò, è un’opera molto
interessante e nient’affatto scontata, oltre che un indiscusso capolavoro. Protagonisti
del film sono quattro personaggi, presentati quasi in una sorta di quadro famigliare: Mitch Wayne (Rock Hudson) un
geologo, Kyle Hadley (Robert Stack) suo fraterno amico e figlio del petroliere
presso il quale Mitch lavora; Lucy (Lauren Bacall) impiegata e in seguito
moglie di Kyle; e infine Marylee Hadley (una favolosa Dorothy Malone) sorella
di Kyle. Da buon melodramma, il film è congeniato sui sentimenti del quartetto:
Marylee ama da sempre Mitch, il quale si innamora però di Lucy, che, a sua volta,
cede alle lusinghe della lussuosa corte di Kyle e lo sposa. Il quale, grazie
anche alla sua potenza economica, sembrerebbe l’unico individuo soddisfatto del
mazzo ma, il diavolo ci mette ovviamente lo zampino, e accade che il giovane
rampollo figlio di papà abbia problemi nella procreazione. Questo elemento
sarà la crepa che provocherà il crollo dell’intero castello famigliare; il quale, per altro, come vedremo,
verteva su una serie di situazioni assai precarie. Si è parlato di diavolo non
a caso, in quanto Kyle ha spesso un aspetto luciferino, come nelle scene in cui
corteggia Lucy sul suo aereo privato, nelle quali le inquadrature con il viso
illuminato da luci rosse ne sottolineano l’ambiguità, mentre in quelle viste
attraverso gli occhi della donna ci appare normale. Il rapporto tra i due è comunque
ambiguo: inizialmente lui è palesemente fasullo, la corteggia fingendosi
seriamente interessato ma è solo una strategia di caccia.
Lei, che
inizialmente apprezza ma rimane comunque guardinga, alla fine cede: è davvero
coinvolta sentimentalmente o, più borghesemente, scorge l’occasione della
vita? E, a sua volta, Kyle, in seguito, è davvero sinceramente innamorato? Più
facile che la risposta affermativa sia valida per la seconda domanda, visto che
l’uomo smette le sue abitudini dissolute nel momento in cui si unisce alla
donna. Lucy, al pari di Mitch, è un personaggio molto borghese, molto a modo, ma,
anche per questo, meno facile da decifrare. Il suo amore per Kyle, se c’è, è
meno evidente, meno ostentato, rispetto a quello di Marylee per Mitch; per il
quale, opportunisticamente, Lucy, per tutto il film non manifesta apertamente
interesse ma, a conti fatti, il finale rivela i reali sentimenti della donna.
Il lieto fine di maniera è così
rispettato: i protagonisti, Rock Hudson e Lauren Bacall convolano a giuste
nozze, ma con tono un po’ triste, dimesso. Sono, in effetti, personaggi un po’
troppo ordinari: Mitch per la verità è il prototipo dell’Eroe Americano nell’interpretazione di Douglas Sirk: bello, forte,
onesto, leale. Persino un po’ noioso nel suo essere corretto: alla fine gli si
preferisce il più interessante Kyle. Ma la sorte peggiore capita proprio alla
Bacall che, nei suoi vestiti eleganti ma al contempo sobri, è apparentemente la
regina della pellicola: è infatti di lei che si innamorano i due uomini. In
realtà, sullo schermo viene letteralmente spazzata via dalla straordinaria
Dorothy Malone (premio Oscar per questa sua interpretazione): Marylee, (e anche
il fratello Kyle, a differenza dei nuovi
borghesi Mitch e Lucy) brucia di vita
ma è prigioniera dell’impossibilità di essere felice. Questa gabbia che rende
impotenti i due figli di papà è magnificamente rappresentata da Sirk con Villa
Hadley, nella quale spesso sbirciamo dalle finestre, che è il luogo dove si
svolge l’intera vicenda e che ci appare proprio come una prigione d’orata.
Al
cospetto dei potenti/impotenti Hadley, discendenti in estinzione della vecchia
guardia capitalista, i nuovi piccoli borghesi Mitch e Lucy tramano e operano
per arrivare ai loro obiettivi. Il film svela quindi anche un aspetto sociale, politico, forse inaspettato in
un melò: ma le pulsioni più forti, negli anni 50, sono legate alla famiglia, al
suo trasformarsi, e quindi è lì che è opportuno ambientare una storia a tinte
forti. Le tensioni interne a questa antica istituzione sono ormai
insostenibili: ad esempio, l’emancipazione femminile passa anche dagli
atteggiamenti disinibiti di Marylee che il vecchio padre Hadley Senior non è
in grado di reggere. In uno straordinario passaggio del film, l’anziano assiste
sconfortato al ritorno a casa dei propri figli, uno di nuovo ubriaco, l’altra
accompagnata da un poliziotto per aver adescato un ragazzo.
L’oscena danza a
musica altissima a cui si dedica la ragazza una volta in camera, è vista in
montaggio alternato con la scena del padre che, al sentire l’indiavolata
musica, si sente male fino a morirne. Per chi, come gli Hayden, è dominato dai
propri demoni, dalle proprie ossessioni, dai propri desideri, non c’è via di
uscita: la stessa struttura circolare del film sottolinea la mancanza di una
possibilità di salvezza. Il film comincia infatti con la sua sequenza
culminante, e già questo è un colpo di genio che Sirk si può permettere solo
perché è in grado di creare l’atmosfera adatta con pochi minuti di montato.
L’artificio
che ci porta a ritroso del tempo è quello classicissimo delle pagine del
calendario che scorrono all’indietro, mosse dallo stesso vento che irrompe
nella casa, trasportando le foglie che girano in vorticosi mulinelli. Questi
passaggi visivamente eccessivi e simbolici di Sirk sono eredità
dell’espressionismo tedesco e funzionano in un contesto moderno solo grazie
alla estrema abilità narrativa del regista: il cinema di Douglas Sirk sembra
sempre sul punto di scadere nel volgare, nel grottesco, nel cattivo gusto, ma
si ferma giusto un attimo prima, nell’ultimo punto utile e sublime prima del
baratro. A titolo di esempio si veda l’imprevedibile scena in cui Kyle, uscendo
dal colloquio col dottore e dal quale ha saputo di essere sterile, si ferma un
attimo a guardare un bambino cavalcare selvaggiamente un cavallo giocattolo. Un
allusione talmente esplicita che c’è il rischio che, per paradosso, qualcuno
possa non coglierla. Tutto il lungo flashback ci riporta al punto di partenza,
il momento in cui Marylee, personaggio disperato ma straordinario, dopo aver
causato la morte del padre, provoca incidentalmente anche la morte del
fratello. Se, nel primo caso, l’accostamento era solo simbolico, e dovuto alla
sua condotta dissoluta, nel caso della morte di Kyle l’intervento della ragazza
è più diretto, ma comunque incidentale, e rivolto, nelle intenzioni, a salvare
Mitch. E’ vero che la situazione di pericolo per Mitch era stata causata dalla stessa
ragazza, che aveva istigato Kyle, ma la grandezza del personaggio interpretato
dalla Malone è proprio il suo faticare, il suo faticare nel trovare la scelta
giusta da fare. Come nel processo finale, dove è tentata dall’accusare Mitch
ma, alla fine, dice la verità, scagionandolo e permettendo a lui e a Lucy di
defilarsi nel lieto fine certamente un po’ troppo ordinario e probabilmente non
solo in ossequio allo produzione.
Perché il vero finale è tutto per Marylee, vestita non più da diva ma in severi
abiti professionali, seduta malinconicamente nello studio nel padre,
accarezzando in modo osceno una statua a forma di torre petrolifera. Volgare,
forse, ma certamente più ardente di vita della smunta coppia di fin troppo
tipici americani convolati nell’happy ending di
maniera.
Interpreti
ideali del fascino banale
della middle
class.
Lauren Bacall
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