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venerdì 26 ottobre 2018

FRANTIC

230_FRANTIC . Stati Uniti, Francia 1988;  Regia di Roman Polanski.

Per prima cosa bisogna dire che Frantic è un buon film, divertente e appassionante; del resto Roman Polanski è un autore notevole con all’attivo numerosi capolavori. E’ una premessa d’obbligo, perché poi, quando si approfondisce anche solo un poco, si è costretti a dire che, in fondo, il film non convince del tutto. Il che non sarebbe certo un dramma, anche ai migliori capita di fare opere minori, ma in Frantic Polanski sembra quasi ricercare questa incompiutezza, per cui si rimane un po’ interdetti. Sia come sia, il film comincia molto bene, si tratta di un thriller e ci troviamo a Parigi, insieme al dottor Walker (Harrison Ford), in viaggio con la moglie Sondra (Betty Bucley), vent’anni dopo la luna di miele nella capitale francese, nella contemporanea occasione di un convegno di medici. Polanski sa come condurre il gioco, e così la coppia si trova sin da subito alle prese con qualche intoppo dovuto agli improvvisati e folcloristici tassisti; anche se, dopo qualche peregrinazione, si giunge al centralissimo hotel. A quel punto arriva la svolta, con lo scambio di persona che coinvolge la povera Sondra prima, che subisce un rapimento, e il dottor Walker poi che, prestando fede al proprio nome, si incammina sulle sue tracce. Lo spaesamento di Walker, le difficoltà nella ricerca in una città in cui non si parla inglese, lo scetticismo della polizia e dell’ambasciata, la tensione che sale man mano: fin qui il film è formalmente impeccabile. Il punto è che il regista polacco continua a sommare elementi senza compensare con uno sviluppo adeguato delle psicologie dei personaggi. Già il titolo del film rimandava in qualche modo a Hitchcock, visto che Frantic significa frenetico e richiama Frenzy (frenesia) del maestro inglese. 
Il modello del cinema di Hitch ritorna poi nella scena della svolta che, come in Psyco, avviene quando uno dei protagonisti è nella doccia, e per restare ai rimandi più evidenti, anche nello sdoppiamento della donna vestita di rosso: La donna che visse due volte, in questo caso prima Michelle (Michelle Seigner) e poi la moglie. A questo proposito il tema del doppio attraversa tutto il film, in modo quasi ossessivo: due sono i tassisti all’arrivo, due sono le docce (prima la moglie, poi il marito), due le donne (Sondra e Michelle), due le istituzioni a cui Walker si rivolge (Polizia e Ambasciata), due le valigie, due le Statue della Libertà, due i club notturni, e via così, in una frammentazione continua che sottolinea la perdita di orientamento, all’interno di questo gigantesco puzzle, da parte del povero dottore. 

Ma soprattutto Hitchcock è naturalmente chiamato in causa per il MacGuffin: si sa che il maestro inglese era solito appellare in tale modo il pretesto narrativo di una storia, che non era importante in sé, ma serviva per mettere in moto la vicenda. In questo senso la valigia, che viene erroneamente scambiata al ritiro bagagli da Michelle e Sondra, è un esempio perfetto. Ma a Polanski non basta: vuole sezionare anche il MacGuffin, e allora Walker insiste per sapere cosa ci sia di così tanto importante da mettere a rischio la vita di sua moglie: droga? No, risponde Michelle, che la valigia incriminata l’aveva portata dall’America. Walker insiste: Cioè, si è proprio droga ammette quindi la ragazza. 

Colpo di scena, arriva proprio in quel mentre la polizia con i cani antidroga! No, non c’è droga, Michelle tranquillizza il dottore, e stavolta dice la verità. E meno male che almeno qui il regista pare divertirsi, e il pericolo droga c’è, visto che Walker ne ha comprata una dose per avere informazioni da uno spacciatore. Archiviato il contrattempo, Polanski insiste sulla questione MacGuffin: alla fin fine è una miniatura della statua della libertà, l’oggetto realmente importante. Anzi no, è ovviamente quello che c’è dentro la statuetta, un krytron, una sorta di detonatore per innescare una qualche esplosione. A fronte di una tale enormità di citazioni, rimandi, specificazioni, dettagli, la trama di Frantic è riassumibile in quattordici parole: una coppia è in vacanza a Parigi, la donna viene rapita e quindi liberata

Certo, c’è qualche peripezia, qualche morto, tra cui Michelle, ma in fondo, chi è Michelle? Una poco di buono, coinvolta suo malgrado nello scambio, che paga con la vita uno slancio di generosità; in fondo poca roba. Perché tra lei e il dottore non succede niente, assolutamente niente: e dire che passano tutto il tempo del film fianco a fianco, e lui è un maschio alfa, almeno per gli standard del cinema anni 80, diamine è Harrison Ford, e lei è una ragazza bellissima. 

C’è una scena esemplare, in questo senso, al club: lei balla in modo provocante, lui si muove impacciato mentre pensa alla moglie rapita. In un contesto di vita normale, il comportamento di Walker è sicuramente encomiabile: ma al cinema, in un film di genere, svilisce il significato della storia. Anche la stessa fedeltà verso la moglie, ne esce ridotta: Walker non ha tentazioni, quindi la sua fedeltà non è nemmeno messa alla prova. Quando nel finale, chiama piccola anche la moglie (raddoppiando l’appellativo con cui ha appena salutato l’ultimo respiro di Michelle), sembra quasi anticipare un possibile dubbio di Sondra; ribadirle il suo amore è più per tranquillizzare un eventuale timore della moglie, ma solo in quel momento Walker sembra rendersi conto che la ragazza era una possibile tentazione. 

Se ne accorge solo alla fine, perché, durante in film, a livello emotivo, in senso sentimentale, non succede niente, i personaggi rimangono fissi sulle loro posizioni di partenza: Frantic è, di fatto, un film senza sviluppo psicologico. Ecco, in sostanza tutto il film è un unico grande MacGuffin, un pretesto per tenere impegnato un paio d’ore lo spettatore: e si ha la netta impressione non solo che Polanski se ne renda conto, ma che sia proprio il suo scopo. Sminuzzare, frantumare, destrutturare il film di genere, per mostrare come, al suo interno, non ci sia praticamente niente. 

Che il suo attacco sia rivolto ai film d’intrattenimento è esplicito sin dai titoli di testa, che richiamano quelli di Star Wars, con le parole che si allontano nello spazio in prospettiva; qui c’è la strada, come sfondo, visto che Frantic è un thriller urbano (forse anche un noir, visto il ruolo della povera Michelle). D’altronde la presenza di Harrison Ford come protagonista della storia è emblematica: da Han Solo ad Indiana Jones, l’attore rappresenta il tipico eroe degli anni 80; un personaggio diverso e più positivo degli anti-eroi del decennio precedente ma, con la sua faccia stralunata di quello che sembra essersi appena svegliato, anche senza la statura dei classici interpreti della golden age hollywoodiana

Frantic è così un film a cui, rispetto ai prodotti di genere, manca una struttura simbolica, frantumata dall’opera di Polanski, ma che, in alternativa, non possiede nemmeno, nei personaggi, uno straccio di carica umana: il difetto maggiore di Frantic è che è un film senza amore per il cinema. E la prova di questo è l’ultima inquadratura, il retro di un camion della nettezza urbana: cinema spazzatura. E’ una provocazione, quella finale di Polanski, e forse lo è tutto Frantic, un enorme provocazione per vedere se qualcuno ci crede.
Ma il primo a cascarci sembra proprio lo stesso regista. 





Emmanuelle Seigner






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