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giovedì 4 ottobre 2018

GIOVENTU' BRUCIATA

218_GIOVENTU' BRUCIATA (Rebel without a cause). Stati Uniti, 1955;  Regia di Nicholas Ray.

Se si pensa a Gioventù bruciata due sono le cose che vengono subito in mente: James Dean, giubbotto rosso, maglietta bianca e blue jeans (i colori della stars and stripes), e la corsa del coniglio. Dean è Jim Stark, il protagonista del film, e la particolare gara a chi salta per ultimo da un’auto lanciata verso un dirupo è il momento topico della storia. Però c’è un fatto singolare: per essere il passaggio più emozionate sorprende che la corsa del coniglio sia nella prima metà del lungometraggio quando, di norma, un evento simile il regista se lo serba per il gran finale. Successivamente alla gara clandestina, c’è poi un altro passaggio memorabile, forse addirittura più bello, più coinvolgente: dopo la tragica corsa, Jim torna a casa dai genitori e comunica loro che vuole costituirsi alla polizia, mentre i suoi cercano di orientarlo su scelte più opportunistiche. Ma anche questa scena, nell’economia del racconto, arriva troppo presto per essere quella cruciale; il fuoco del regista è quindi posto altrove, non sulla prova di coraggio, sull’atto eroico, e nemmeno sull’assunzione delle proprie responsabilità, due temi per altro forti e interessanti.
Temi, per inciso, posti all’interno di un’opera formalmente di grande impatto visivo: si pensi alla composizione sullo schermo della corsa clandestina, con le auto parcheggiate a spina di pesce ai lati, in mezzo la ragazza a dare il via, i fari che si accendono, le auto che partono all’impazzata… Solo questa scena, ma ce ne sono molte altre, (come ad esempio la composizione nella stessa inquadratura dei tre personaggi che ancora non si conoscono ma che poi saranno protagonisti, nell’incipit al comando di Polizia) può essere significativa della capacità figurativa di Nicholas Ray, il formidabile regista di Gioventù bruciata.

Un autore dal grande intuito anche per le stoffa degli attori, qualità evidenziata dalla consapevolezza di lanciare nel firmamento delle stelle hollywoodiane, con questo film, James Dean: il suo personaggio si chiama in effetti Star(k) e molte scene, tra cui quella conclusiva, si svolgono nell’osservatorio astronomico Griffith, un posto dove si vedono appunto gli astri. 
Al di là della consacrazione d’attore, quello che ci presenta Ray è un personaggio che sembra adulto ma in realtà è ancora un ragazzino che gioca coi pupazzi, beve latte, piagnucola o ridacchia. Ma questo personaggio è James Dean, ovvero un autentico mito ambulante, la personificazione divistica del bello e dannato, un tizio a cui bastarono tre film per diventare un’icona sexy, cool, imitata ma inconfondibile ancora oggi.

Una situazione simile c’è anche per Judy, la protagonista femminile, ma Natalie Wood non riesce assolutamente a ottenere gli stessi risultati di Dean quando, come una bambina, cerca affetto dal padre, mentre è più credibile come ragazzetta del bullo di turno. Il titolo originale del film recita Rebel without a cause, e significa ribelle senza motivo: in effetti l’insofferenza mostrata da Jim non ha una motivazione economica (i suoi sono benestanti) e nemmeno sociale (i genitori non divorziati, la possibilità di studiare).

Anzi, proprio l’eccesivo imborghesimento della società sembra essere la radice del male che attanaglia i giovani annoiati degli anni 50. La famiglia come modello rappresentato nel film è in crisi ma, un po’ a sorpresa, Ray sembra prendersela maggiormente col versante femminile: il padre di Jim è troppo remissivo, mentre mamma e nonna spadroneggiano, e anche Judy accetta unicamente il papà come interlocutore, rifiutando di relazionarsi con la madre. La terza famiglia presente (ma dovremmo dire assente) nel film è quella, solo raccontata, di Plato (Sal Mineo), l’amico che sembra anche più giovane (e che come un bimbo spaia i calzini) e che è alla disperata ricerca di affetto, visto che vive con la balia nell’agiatezza ma è di fatto abbandonato dai suoi. La mancanza di amore, di affetto, ma anche di valori meno sentimentali come l’onestà, in luogo di una parvenza di felicità solo superficiale e legata alle apparenze, sono la causa del mal di vivere di Jim e degli altri ragazzi.


La scena della gara dei conigli, o anche il successivo sfogo, sono posti nella prima parte del film perché non sono una soluzione, ma semplicemente gli effetti collaterali legati alla sofferenza generazionale: il bisogno di emozionarsi, la volontà di sentirsi onesti, a posto con la propria coscienza, in una parola vivi. E proprio questi sono i moti da cui Jim può partire per capire che non troverà nei suoi genitori le risposte che cerca: è tempo di smettere di piangersi addosso o ubriacarsi e prendersela con il primo che capita.
Nella vecchia casa abbandonata, in una dimensione che sembra quasi fuori dal tempo, lui, Judy e Plato sembrano comporre quell’unità famigliare che nel film non si era ancora vista. Non è quindi ai genitori a cui deve rivolgere le domande su cui insiste, ma a sé stesso perché, più che suo padre, è lui l’unico che sembra in grado di trovarle.
Alla fine, la morte di Plato sembra un presagio negativo; anche la famiglia simbolica, di cui Plato era il figlio, si disgrega. E la giacca con cui Jim ne copre il cadavere, ricorda la carta con cui lo stesso Jim aveva coperto il pupazzo durante i titoli di testa.
Non  è cambiato niente, quindi? Non c’è proprio futuro, speranza?
Forse no, ma adesso almeno si sa su chi si può contare se si ricerca un minimo di autenticità: sé stessi.
L’America degli anni 50, ancora oggi così celebrata, non era un paese per giovani.



Natalie Wood




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