222_MAN IN THE DARK (Don't breathe). Stati Uniti 2016; Regia di Fede Alvarez.
Nel finale del film, la polizia (o chi per lei) sta
arrivando, allertata dalla chiamata dell’antirapina, e Rocky (Jane Levy),
l’unica sopravvissuta del terzetto di protagonisti (gli altri sono Alex/Dylan
Minnette e Money/Daniel Zovatto) deve prendere una decisione cruciale. E qui
che si decide il film, e sebbene la scelta risulti poi congegnale al
prevedibile sequel (già annunciato da Sam Raimi, produttore dell’opera), questo è solo un
valore aggiunto: per una volta, gli intenti commerciali coincidono con quelli
autoriali. Ma prima di entrare nei dettagli
di questo passaggio decisivo, occorre fare i complimenti a Fede Alvarez: dopo
l’interessante reboot La casa-Evil dead del 2013, sempre sotto
l’egida di Raimi e della sua Gosth House Pictures, questo Don’t
breathe (così recita il titolo originale) è un altro ottimo horror,
di quelli che fanno paura sul serio. Innanzitutto le scene sono girate con
superba tecnica del cinema dell’orrore, lo spettatore è davvero messo a dura
prova, vuoi per gli spaventi, vuoi il per senso angosciante che pervade
praticamente tutta la durata del lungometraggio. L’idea alla base è ottima,
quasi geniale, perché se il film utilizza sostanzialmente i classici cliché dei
film di paura, tutti i presupposti sono aggiornati, resi maledettamente da
nuovo millennio, e quindi angoscianti anche nella profondità delle loro
radici. Cominciamo col conoscere i protagonisti: tre giovani ladri senza il
minimo senso etico. L’unico che sembra poterlo avere è Alex, ma è anche quello
che compie la scorrettezza più profonda, utilizzando il lavoro del padre,
guardia giurata, per derubare le vittime. Money, il cui nome è già tutto un
programma, è solo un bulletto di periferia, e volendo può essere ritenuto il
meno responsabile della truppa in quanto meno consapevole; un povero idiota,
insomma.
Chiude il terzetto Rocky, nome da macho per la soave fanciulla di Money che, è implicito, sfrutta il suo ascendente per convincere Alex a fornire al trio le informazioni per i furti. In apparenza non precisamente quello che si direbbe una bella persona, ma è anche vero che questa è una caratteristica che vale per i soggetti di sesso femminile di aspetto gradevole nel 99,9 periodico dei casi (eventuali lettrici escluse, come da prassi). Ma torniamo alla periferia da cui provengono i nostri eroi: Detroit, ovvero la sede di aziende come Chrysler e General Motors che nel 2009 subirono la pesantissima crisi, con la conseguenza che, per lo spopolamento dovuto alla chiusura delle fabbriche, interi quartieri vennero lasciati deserti.
In queste strade desolate si aggirano i nostri tre baldi giovani prendendo di mira la casa di un disabile; per la precisione si tratta di un non vedente e per giunta è un invalido di guerra, ma siccome la sfortuna, al contrario di lui, ci vede benissimo, il poveretto ha perso anche la figlia in seguito ad un incidente. Insomma, un tipo che andrebbe compatito, almeno in base ad una conoscenza superficiale della sua situazione; ma il nostro terzetto ci vede, al contrario, una ghiotta opportunità: ghiotta perché pare abbia nascosto in casa il malloppo del risarcimento per la morte della figlia e opportunità perché, essendo cieco, rubarglielo sembra cosa facile.
In realtà le cose non andranno storte, ma stortissime, perché il reduce, cieco o non cieco, è una vera macchina da guerra. Questa fase del film è bellissima, perché Alvarez rovescia i presupposti e chi, da svantaggiato, doveva essere preda diventa cacciatore e per i ragazzi comincia un vero incubo nel quale incombe la figura di Norman Nordstrom, il cieco, interpretato splendidamente da Stephen Lang. Il quale, pur essendo in prima analisi una vittima dei tre ladri, si rivelerà anche peggiore di loro, certamente più pazzo ma anche più sadico e crudele: addirittura in cantina nasconde, imprigionata, la donna responsabile dell’incidente dove la figlia perse la vita. Gli effetti della guerra e/o della perdita della figlia lo hanno certamente segnato; ma nel rapporto con i tre ladri è, in un certo senso, dalla parte della ragione. Alla fine, Rocky si salva, anche grazie al sacrificio di Alex, l’amico che nella friend-zone della ragazza rimarrà così per sempre; magra soddisfazione.
Ma era evidente sin da subito che, anche questo film, come moltissimi recentemente, fosse incentrato sulla figura femminile: si salverà? Facile indovinare che si, si salverà. Ma, come ne uscirà? Ecco, torniamo alla scena cruciale: la polizia sta arrivando, se Rocky la aspetta potrà fare chiarezza, rendere giustizia alla donna sequestrata e poi morta, in parte anche ai suoi amici, semplici ladri finiti ammazzati da un pazzo squilibrato. Ma dovrebbe rendere il bottino.
E allora, meglio filarsela, con i soldi in California con la figlia (madre e figlia, due soggetti di sesso femminile, in ossequio alle quote rosa imperanti nel cinema). E il fidanzato Money, ammazzato durante l’irruzione? E l’amico Alex, riluttante, convinto con gli occhioni da cerbiatta, e poi morto anche lui per salvarla? Alla tv ne parlano come due volgari banditi che hanno aggredito un povero disabile reduce di guerra. Nessun accenno ad una qualche ragazza ne ai soldi; meno male, penserà Rocky. Ma, a proposito, Rocky, per i tuoi amici che ora passano per criminali peggio di quanto fossero non provi alcun rimorso? Forse ancora no.
Ma il reduce, e questo la nostra
Rocky non l’aveva messo in conto, non è morto.
Ah.
Va bene, ottimo materiale per il
sequel, avrà pensato Raimi, ma sembra molto più interessante il brivido che
prova finalmente la ragazza.
Non avranno rimorsi ne coscienza:
che abbiano almeno paura.
Jane Levy
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