156_ROSEMARY'S BABY - NASTRO ROSSO A NEW YORK (Rosemary's Baby). Stati Uniti, 1968; Regia di Roman Polanski.
E’ noto che Rosemary’s
Baby è la prima opera americana del regista Roman Polanski; e il film
simbolicamente si apre con una ripresa panoramica della più americana delle
città, almeno dal punto di vista cinematografico, New York. La macchina da
presa sorvola i moderni palazzi di vetro e acciaio, tanto caratteristici quanto
tipici della grande mela ma, alla fine del percorso aereo, l’obiettivo di
Polanski si ferma sul Dakota, un
celebre edificio neogotico dall’aspetto certamente meno contemporaneo. Eccola
quindi già qui, la chiave di lettura del film, in questi pochi fotogrammi
introduttivi (ma che significativamente si ripetono anche nel finale, a
conferma della visione dell’autore polacco che non offre alcuna via di uscita): Rosemary’s Baby è quindi una storia moderna,
ma il cui cuore è antico. E che lo sia in modo guasto, malato e insanabile, è
forse solo intuibile dal severo aspetto del condominio, il cui stile riccamente
rifinito, eppure al tempo stesso austero, incute in effetti una certa
soggezione, come del resto tutti gli edifici di ispirazione gotica. Questa
duplice traccia percorre tutto il film, tutto il racconto e Polanski non la risolve
mai; o meglio, non la sfocia nella soluzione più classica, più ovvia, più credibile
e anche più tranquillizzante. Non è un sogno, non è un incubo, i timori di
Rosemary (una drammaticamente sofferta Mia Farrow) sono più fondati di quanto
lei stessa crede.
Il regista, sulla base dell’omonimo romanzo di Ira
Levin, imbastisce una storia farcita di molti dettagli, molti particolari, che
lasciano intendere alla protagonista (e a noi) la possibilità di un complotto
ai danni della sua futura maternità: la cecità del collega di Guy (John
Cassavetes), il ciondolo dall’odore pungente, la mousse al cacao, il guanto
sparito, lo scambio di cravatte e, più di ogni altra cosa, i vicini di casa
stravaganti, Roman e Minnie. I sospetti di Rosemary sono fondati e credibili;
ma in narrativa, in particolar modo in quella del brivido, quando una serie di
circostanze sembrano evidenziare una cosa, poi la realtà si rivela diversa.
E’ così che abitualmente la narrativa gialla
assolve al suo compito: prima si provoca paura e poi si permette di tirare un
respiro di sollievo; quand’anche le cose si rivelino in modo negativo, il
confronto finale risistema il tutto, rimettendolo in ordine. Il mago di Lodz ha però la vena
anarchica sempre dominante e quindi tutti gli assurdi sospetti di Rosemary si
rivelano quanto mai fondati, e il finale non sistema niente ne tantomeno ci
viene fornita una spiegazione plausibile dell’incredibile serie di avvenimenti.
No, sembra dirci Polanski, Rosemary’s
Baby può essere inteso come un incubo, ma non vi risveglierete alla fine
del film.
Se il binario fantastico, quello condotto dai coniugi
Castevet, Roman e Minni, è bizzarro e volutamente poco realistico, la traccia
affidata a Rosemary e Guy è uno spietatamente crudele e credibile ritratto
dell’uomo moderno, quell’uomo americano tanto
(beffardamente?) lodato da Polanski nelle interviste del tempo. Se Guy si può
liquidare velocemente definendolo come il classico arrivista disposto a tutto
(anche a dare la vita del proprio figlio al diavolo) pur di avere successo, più
interessante la caratterizzazione di Rosemary.
La ragazza è, in un certo senso, il tipico prodotto della
rivoluzione femminista, ovvero una negazione delle tradizionali caratteristiche
femminili (l’assenza di curve anatomiche, il trucco, il dress-code) a vantaggio di una generale asessualità; aspetto
accentuato, nel corso della pellicola, dal taglio dei capelli e dall’uso di
abiti sempre più sixty che rendono la Farrow più simile ad una
fanciulla semiadolescente che ad una donna. I sogni e gli incubi della ragazza
lasciano intendere il travaglio interiore tra il desiderio e la paura al
cospetto della maternità; anche il rapporto con il sesso è poco naturale,
vissuto in modo meccanico, senza trasporto.
L’educazione cattolica rimarca da una parte le inibizioni
della ragazza e dall’altra prepara la strada alla soluzione satanica, che
ricalcherà pedestremente, e anche un po’ banalmente, i criteri della Chiesa
stessa, nel satanico sermone finale con cui Roman sostanzialmente sancisce il
finale.
Insomma, il nodo cruciale sono Guy e Rosemary: la tipica moderna
coppia borghese americana, lui interessato solo alla professione, lei che fatica
ad intendere il tradizionale ruolo di donna/madre.
Terreno fertile, per il demonio; o meglio, per quel demonio
di Polanski.
Mia Farrow
Nessun commento:
Posta un commento