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sabato 2 giugno 2018

ROSEMARY'S BABY - NASTRO ROSSO A NEW YORK

156_ROSEMARY'S BABY - NASTRO ROSSO A NEW YORK (Rosemary's Baby). Stati Uniti1968;  Regia di Roman Polanski.

E’ noto che Rosemary’s Baby è la prima opera americana del regista Roman Polanski; e il film simbolicamente si apre con una ripresa panoramica della più americana delle città, almeno dal punto di vista cinematografico, New York. La macchina da presa sorvola i moderni palazzi di vetro e acciaio, tanto caratteristici quanto tipici della grande mela ma, alla fine del percorso aereo, l’obiettivo di Polanski si ferma sul Dakota, un celebre edificio neogotico dall’aspetto certamente meno contemporaneo. Eccola quindi già qui, la chiave di lettura del film, in questi pochi fotogrammi introduttivi (ma che significativamente si ripetono anche nel finale, a conferma della visione dell’autore polacco che non offre alcuna via di uscita): Rosemary’s Baby è quindi una storia moderna, ma il cui cuore è antico. E che lo sia in modo guasto, malato e insanabile, è forse solo intuibile dal severo aspetto del condominio, il cui stile riccamente rifinito, eppure al tempo stesso austero, incute in effetti una certa soggezione, come del resto tutti gli edifici di ispirazione gotica. Questa duplice traccia percorre tutto il film, tutto il racconto e Polanski non la risolve mai; o meglio, non la sfocia nella soluzione più classica, più ovvia, più credibile e anche più tranquillizzante. Non è un sogno, non è un incubo, i timori di Rosemary (una drammaticamente sofferta Mia Farrow) sono più fondati di quanto lei stessa crede. 

Il regista, sulla base dell’omonimo romanzo di Ira Levin, imbastisce una storia farcita di molti dettagli, molti particolari, che lasciano intendere alla protagonista (e a noi) la possibilità di un complotto ai danni della sua futura maternità: la cecità del collega di Guy (John Cassavetes), il ciondolo dall’odore pungente, la mousse al cacao, il guanto sparito, lo scambio di cravatte e, più di ogni altra cosa, i vicini di casa stravaganti, Roman e Minnie. I sospetti di Rosemary sono fondati e credibili; ma in narrativa, in particolar modo in quella del brivido, quando una serie di circostanze sembrano evidenziare una cosa, poi la realtà si rivela diversa.

E’ così che abitualmente la narrativa gialla assolve al suo compito: prima si provoca paura e poi si permette di tirare un respiro di sollievo; quand’anche le cose si rivelino in modo negativo, il confronto finale risistema il tutto, rimettendolo in ordine. Il mago di Lodz ha però la vena anarchica sempre dominante e quindi tutti gli assurdi sospetti di Rosemary si rivelano quanto mai fondati, e il finale non sistema niente ne tantomeno ci viene fornita una spiegazione plausibile dell’incredibile serie di avvenimenti. No, sembra dirci Polanski, Rosemary’s Baby può essere inteso come un incubo, ma non vi risveglierete alla fine del film. 

Se il binario fantastico, quello condotto dai coniugi Castevet, Roman e Minni, è bizzarro e volutamente poco realistico, la traccia affidata a Rosemary e Guy è uno spietatamente crudele e credibile ritratto dell’uomo moderno, quell’uomo americano tanto (beffardamente?) lodato da Polanski nelle interviste del tempo. Se Guy si può liquidare velocemente definendolo come il classico arrivista disposto a tutto (anche a dare la vita del proprio figlio al diavolo) pur di avere successo, più interessante la caratterizzazione di Rosemary.

La ragazza è, in un certo senso, il tipico prodotto della rivoluzione femminista, ovvero una negazione delle tradizionali caratteristiche femminili (l’assenza di curve anatomiche, il trucco, il dress-code) a vantaggio di una generale asessualità; aspetto accentuato, nel corso della pellicola, dal taglio dei capelli e dall’uso di abiti sempre più sixty che rendono la Farrow più simile ad una fanciulla semiadolescente che ad una donna. I sogni e gli incubi della ragazza lasciano intendere il travaglio interiore tra il desiderio e la paura al cospetto della maternità; anche il rapporto con il sesso è poco naturale, vissuto in modo meccanico, senza trasporto. 

L’educazione cattolica rimarca da una parte le inibizioni della ragazza e dall’altra prepara la strada alla soluzione satanica, che ricalcherà pedestremente, e anche un po’ banalmente, i criteri della Chiesa stessa, nel satanico sermone finale con cui Roman sostanzialmente sancisce il finale.
Insomma, il nodo cruciale sono Guy e Rosemary: la tipica moderna coppia borghese americana, lui interessato solo alla professione, lei che fatica ad intendere il tradizionale ruolo di donna/madre.
Terreno fertile, per il demonio; o meglio, per quel demonio di Polanski.    


Mia Farrow




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