165_QUEI BRAVI RAGAZZI (Goodfellas). Stati Uniti, 1990; Regia di Martin Scorsese.
Il titolo italiano Quei bravi ragazzi rende grosso modo il senso di quello originale, Goodfellas, e ripropone quella
contraddizione che può essere intesa come la chiave di lettura dell’opera di
Martin Scorsese. Perché bravi, i
ragazzi del film, proprio non si possono definire; certo, la frase può suonare
come quei commenti giustificativi che accompagnano le bravate (appunto), spesso anche gravi, di certi teppisti: “sono bravi ragazzi” capita di sentir
dire di chi ha magari infranto clamorosamente la legge. Questa superficialità
di amici, parenti e conoscenti dei cosiddetti bravi ragazzi può essere in un certo senso ripescata da Scorsese,
che la usa per definire i suoi protagonisti: goodfellas, quindi. Ma che sono tutto tranne che bravi; o buoni,
per attenerci alla definizione originale. C’è quindi una contraddizione già nel
titolo, ma è una contraddizione consapevole, risaputa, con lo stesso implicito
ammiccamento di quei conoscenti di quegli stessi teppisti di cui si diceva
prima, che mentre ti dicono che gli eventuali crimini in questione sono solo ragazzate, alludono un po’ al famoso
monito chi è senza peccato scagli la
prima pietra. Perché i protagonisti del film di Scorsese, arrivando al
punto dolente, forse non sono altro che il prodotto della civiltà americana, e
non il loro scarto, come verrebbe da pensare. Mannò, essi mettono in pratica,
magari con eccessivo (e criminale) zelo, le logiche della libera concorrenza e
del libero mercato. La capacità di arrangiarsi, tipica degli italiani, trovò, a
suo tempo, terreno fertile negli Stati Uniti, il paese delle mille opportunità,
del Sogno Americano. Il problema è
che di quella libertà, che è la parola d’ordine degli Stati Uniti, alla fine si
è smarrito un po’ il senso, o almeno i confini di esso.
Infatti, se è vero che il mondo mostratoci da
Scorsese in Quei bravi ragazzi ha le sue regole, esse sono del tutto
particolari quando non vanno addirittura
al contrario rispetto alla norma: infatti i nostri hanno senso dell’onore, ma solo per la famiglia, vestono come uomini d’affari, ma sono gangster e nei
locali, per evitare la coda, entrano da un’uscita (secondaria). Ma il dito
della piaga Scorsese lo mette davvero quando mostra come questi goodfellas non rispettino nemmeno le regole
proprie della mafia, e ambiguità e tradimento sono all’ordine del giorno. E
se aderire ad una cosca mafiosa significa di fatto tradire lo Stato (essendo la Mafia uno stato nello
stato), i ragazzi di Scorsese rilanciano il tradimento, violando anche le
regole di quest’ultima. Il tema del tradimento è poi sottolineato dal
comportamento nella vita privata di Henry Hill (Ray Liotta), che non può certo
spacciarsi per marito fedele. L’incapacità di rispettare le regole, siano esse
quelle del sistema legittimo o quelle della famiglia,
è comune anche agli altri due protagonisti del film. Se Henry è solo un superficiale e accomodante
arrivista (criminale, naturalmente), Jimmy Conway (Robert De Niro) è più
scaltro, calcolatore, meno superficiale di Henry, ma non per questo migliore,
anzi; chiude il terzetto Tommy DeVito (Joe Pesci) sadico psicopatico del tutto
svincolato dalla realtà. Tra di loro c’è sicuramente un’intesa, ma generica,
confusa, e infatti gli equivoci non mancano, come quello tragico e esplicitamente
evidenziato da loro stessi e che porta alla morte di Spider, il ragazzo che gli
fa da cameriere.
Ma l’ambiguità di fondo tra i ragazzi è costante, e da essa
scaturisce un’altra memorabile scena, quella in cui Henry definisce buffo Tommy, provocandone la finta
reazione. Nel corso del lungometraggio, che ha un tempo filmico consistente
(almeno 25 anni), i personaggi invecchiano e, curiosamente, quello di Robert De
Niro finisce per assomigliare un po’ ad una versione attempata dello stesso Scorsese.
Ma forse tutte e tre gli elementi del trio hanno qualcosa del regista: molta
dell’ambiguità di Jimmy, un po’ della faccia tosta di Henry, e anche un pizzico
della follia di Tommy. E’ forse un caso, ma la sovrapposizione del regista con
i suoi ragazzi era già in qualche modo trapelata dai continui tradimenti della regia: il flashback che
parte dall’incipit della storia, ci porta poi solo a metà dell’opera, senza
un’apparente logica; così come è spiazzante l’uso di due voci narranti e, se è
plausibile, a livello narrativo, quella di Henry, si fatica ad inquadrare
quella della moglie Karen (Lorraine Bracco). E’ forse che Scorsese infrange le
regole narrative del cinema e del genere, e se c’è una citazione a Rapina a mano armata di Stanley Kubrick
(nella scena dell’uccisione di Billy Batts, che torna in più riprese), il
regista italoamericano si spinge molto più in là quando, nel finale, Henry si
svincola dal racconto filmico rivolgendosi direttamente agli spettatori.
Insomma, Quei bravi
ragazzi è un film che fa un po’ il punto, (in effetti è una sorta di
biografia del vero Henry Hill tratta dal romanzo Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi) ma più che sulla vita del
gangster si può dire che Scorsese tiri le somme sull’intera America, dal
dopoguerra (le scene del 1955) fino agli eighties,
il decennio che consacrò il Sogno
Americano e ne decretò anche la sua fine. I mafiosi hanno potuto farsi
strada negli States, grazie alla loro
mancanza di scrupoli che, in fin della fiera, è una neanche troppo forzata interpretazione
del mito del selfmade man americano;
ma affidarsi soltanto alla propria capacità opportunistica non ci porta
lontano. E se il protagonista del film alla fine è contento di rientrare a
pieno titolo nell’anonimato di una vita qualunque, (“vivrò tutta la vita come uno stronzo qualsiasi” per citare le
parole di Henry quando nel finale guarda direttamente l’obiettivo della
macchina da presa) è forse lì che si capisce che, tra i tre goodfellas, il vero ruolo di Scorsese è
quello di Tommy che, senza alcun motivo apparente, ci innaffia di piombo: il
motivo naturalmente c’è e, come ha insegnato The Great
Train Robbery del 1903 (a cui la scena si riferisce), è fare cinema. E come il regista
intenda questo, lo si può capire dalla canzone che parte proprio in quel
momento: My Way, pezzo famoso
nell’interpretazione di Frank Sinatra ma da Scorsese proposta opportunamente
nella versione dei Sex Pistols.
Classico, personale e in salsa acida: il Cinema di Martin Scorsese.
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