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mercoledì 20 giugno 2018

QUEI BRAVI RAGAZZI

165_QUEI BRAVI RAGAZZI (Goodfellas). Stati Uniti, 1990;  Regia di Martin Scorsese.

Il titolo italiano Quei bravi ragazzi rende grosso modo il senso di quello originale, Goodfellas, e ripropone quella contraddizione che può essere intesa come la chiave di lettura dell’opera di Martin Scorsese. Perché bravi, i ragazzi del film, proprio non si possono definire; certo, la frase può suonare come quei commenti giustificativi che accompagnano le bravate (appunto), spesso anche gravi, di certi teppisti: “sono bravi ragazzi” capita di sentir dire di chi ha magari infranto clamorosamente la legge. Questa superficialità di amici, parenti e conoscenti dei cosiddetti bravi ragazzi può essere in un certo senso ripescata da Scorsese, che la usa per definire i suoi protagonisti: goodfellas, quindi. Ma che sono tutto tranne che bravi; o buoni, per attenerci alla definizione originale. C’è quindi una contraddizione già nel titolo, ma è una contraddizione consapevole, risaputa, con lo stesso implicito ammiccamento di quei conoscenti di quegli stessi teppisti di cui si diceva prima, che mentre ti dicono che gli eventuali crimini in questione sono solo ragazzate, alludono un po’ al famoso monito chi è senza peccato scagli la prima pietra. Perché i protagonisti del film di Scorsese, arrivando al punto dolente, forse non sono altro che il prodotto della civiltà americana, e non il loro scarto, come verrebbe da pensare. Mannò, essi mettono in pratica, magari con eccessivo (e criminale) zelo, le logiche della libera concorrenza e del libero mercato. La capacità di arrangiarsi, tipica degli italiani, trovò, a suo tempo, terreno fertile negli Stati Uniti, il paese delle mille opportunità, del Sogno Americano. Il problema è che di quella libertà, che è la parola d’ordine degli Stati Uniti, alla fine si è smarrito un po’ il senso, o almeno i confini di esso. 
Infatti, se è vero che il mondo mostratoci da Scorsese in Quei bravi ragazzi  ha le sue regole, esse sono del tutto particolari quando non vanno addirittura al contrario rispetto alla norma: infatti i nostri hanno senso dell’onore, ma solo per la famiglia, vestono come uomini d’affari, ma sono gangster e nei locali, per evitare la coda, entrano da un’uscita (secondaria). Ma il dito della piaga Scorsese lo mette davvero quando mostra come questi goodfellas non rispettino nemmeno le regole proprie della mafia, e ambiguità e tradimento sono all’ordine del giorno. E se aderire ad una cosca mafiosa significa di fatto tradire lo Stato (essendo la Mafia uno stato nello stato), i ragazzi di Scorsese rilanciano il tradimento, violando anche le regole di quest’ultima. Il tema del tradimento è poi sottolineato dal comportamento nella vita privata di Henry Hill (Ray Liotta), che non può certo spacciarsi per marito fedele. L’incapacità di rispettare le regole, siano esse quelle del sistema legittimo o quelle della famiglia, è comune anche agli altri due protagonisti del film. Se Henry è solo un superficiale e accomodante arrivista (criminale, naturalmente), Jimmy Conway (Robert De Niro) è più scaltro, calcolatore, meno superficiale di Henry, ma non per questo migliore, anzi; chiude il terzetto Tommy DeVito (Joe Pesci) sadico psicopatico del tutto svincolato dalla realtà. Tra di loro c’è sicuramente un’intesa, ma generica, confusa, e infatti gli equivoci non mancano, come quello tragico e esplicitamente evidenziato da loro stessi e che porta alla morte di Spider, il ragazzo che gli fa da cameriere.


Ma l’ambiguità di fondo tra i ragazzi è costante, e da essa scaturisce un’altra memorabile scena, quella in cui Henry definisce buffo Tommy, provocandone la finta reazione. Nel corso del lungometraggio, che ha un tempo filmico consistente (almeno 25 anni), i personaggi invecchiano e, curiosamente, quello di Robert De Niro finisce per assomigliare un po’ ad una versione attempata dello stesso Scorsese. Ma forse tutte e tre gli elementi del trio hanno qualcosa del regista: molta dell’ambiguità di Jimmy, un po’ della faccia tosta di Henry, e anche un pizzico della follia di Tommy. E’ forse un caso, ma la sovrapposizione del regista con i suoi ragazzi era già in qualche modo trapelata dai continui tradimenti della regia: il flashback che parte dall’incipit della storia, ci porta poi solo a metà dell’opera, senza un’apparente logica; così come è spiazzante l’uso di due voci narranti e, se è plausibile, a livello narrativo, quella di Henry, si fatica ad inquadrare quella della moglie Karen (Lorraine Bracco). E’ forse che Scorsese infrange le regole narrative del cinema e del genere, e se c’è una citazione a Rapina a mano armata di Stanley Kubrick (nella scena dell’uccisione di Billy Batts, che torna in più riprese), il regista italoamericano si spinge molto più in là quando, nel finale, Henry si svincola dal racconto filmico rivolgendosi direttamente agli spettatori.

Insomma, Quei bravi ragazzi è un film che fa un po’ il punto, (in effetti è una sorta di biografia del vero Henry Hill tratta dal romanzo Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi) ma più che sulla vita del gangster si può dire che Scorsese tiri le somme sull’intera America, dal dopoguerra (le scene del 1955) fino agli eighties, il decennio che consacrò il Sogno Americano e ne decretò anche la sua fine. I mafiosi hanno potuto farsi strada negli States, grazie alla loro mancanza di scrupoli che, in fin della fiera, è una neanche troppo forzata interpretazione del mito del selfmade man americano; ma affidarsi soltanto alla propria capacità opportunistica non ci porta lontano. E se il protagonista del film alla fine è contento di rientrare a pieno titolo nell’anonimato di una vita qualunque, (“vivrò tutta la vita come uno stronzo qualsiasi” per citare le parole di Henry quando nel finale guarda direttamente l’obiettivo della macchina da presa) è forse lì che si capisce che, tra i tre goodfellas, il vero ruolo di Scorsese è quello di Tommy che, senza alcun motivo apparente, ci innaffia di piombo: il motivo naturalmente c’è e, come ha insegnato The Great Train Robbery del 1903 (a cui la scena si riferisce), è fare cinema. E come il regista intenda questo, lo si può capire dalla canzone che parte proprio in quel momento: My Way, pezzo famoso nell’interpretazione di Frank Sinatra ma da Scorsese proposta opportunamente nella versione dei Sex Pistols.
Classico, personale e in salsa acida: il Cinema di Martin Scorsese.



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