170_LOVING VINCENT Regno Unito, Polonia, 2017; Regia di Dorota Kobiela e Hugh Welchman.
Già soltanto l’idea di Loving Vincent lascia stupefatti. Le opere del pittore che ha
cambiato il corso della Storia dell’Arte, di quell’artista che, come giustamente e
argutamente notato dal sempre lucido Gianni Canova (massimo critico
cinematografico del nostro paese), sulle sue tele faceva cinema prima ancora
che il cinema fosse stato inventato, diventano ora esse stesse cinema.
Spiazzante e, per una volta verrebbe da usare quell’aggettivo abusato sempre
più spesso (e sempre a sproposito), incredibile. Perché il film Loving Vincent è anche un’opera immane,
non solo dal punto di vista concettuale, ma la sua realizzazione, il ricreare
un film di animazione su tela sulla base dei quadri di Van Gogh, deve essere
stata un’impresa improba (65.000 fotogrammi realizzati da 125 artisti). In ogni
caso il risultato è molto interessante e, finalmente, un film che racconta
la vita o l’arte di un pittore, lascia molto spazio alle sue opere, al suo
stile, al suo modo di catturare la luce, ai suoi colori. Questo è sicuramente
l’aspetto più interessante del film, ovvero il tentativo di mettere la pittura
al centro dell’opera, piuttosto che la vita dell’artista. In effetti, la storia
che comunque viene raccontata sembra concentrarsi addirittura più sulla morte
di Van Gogh, e anche questo limita, e di molto, gli aspetti biografici del
film. Armand Roulin, che deve consegnare una lettera di Vincent al fratello
Theo, scopre alcuni elementi poco chiari nella morte del pittore olandese e
comincia una personale indagine per capire se davvero si è suicidato o se le
cose sono andate diversamente. Ma diventa poi evidente che non è tanto
importante come sia morto Van Gogh (e, a questo punto, nemmeno come sia
vissuto): quello che importa è la sua opera, la sua pittura.
In ogni caso, se l’intreccio giallo (tra l’altro uno dei colori forti di Van Gogh) sostiene il
racconto per la sua durata, il vero scopo del film è più che altro mettere in scena i quadri di Vincent,
provare a rendere concreta (grazie alle nuove tecnologie e al lavoro certosino
degli autori del film) l’idea cinematografica, la capacità cinetica e la
luminosità (ricordando che il cinema è fatto di luce), che erano intrinseche e
che permeavano in modo assolutamente innovativo i dipinti del pittore olandese.
Che era naturalmente un assoluto genio; e, almeno questa volta, lo
sono stati anche Dorota Kobiela e Hugh Welchman, i registi di questo film.
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