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giovedì 14 giugno 2018

ROMA CITTA' APERTA

162_ROMA CITTA' APERTA Italia1945;  Regia di Roberto Rossellini.

Se, al momento della sua uscita, Roma città aperta di Roberto Rossellini non ebbe un grande successo di pubblico, in tempi ragionevolmente brevi, una volta ottenuti alcuni importanti riconoscimenti (tra gli altri, l’Oscar alla sceneggiatura, la Palma d’oro e il Nastro d’argento), l’opera assurse a punto di riferimento capitale del cinema italiano. Va da sé che l’importanza di Roma città aperta è universale e assoluta, e solo in seconda istanza se ne può parlare in senso nazionale o all’interno della corrente neorealista. Ma c’è un aspetto che prevarica, forse (il condizionale, visto l’importanza del tema trattato, è d’obbligo) la stessa rilevanza che il film di Rossellini ebbe in senso cinematografico mondiale, globale. Ed è, in un certo senso, la valenza epica dell’opera, il suo avere un significato sociale fondamentale, basilare, per il nostro paese. Come noto il film si iscrive perfettamente nella corrente del neorealismo cinematografico (di cui è una delle vette artisticamente più alte), laddove il nuovo movimento fece di necessità virtù e, al vuoto cinematografico (che rifletteva quello politico, sociale ed economico) lasciato dalla caduta del fascismo, si improvvisò nuovo stile, povero e sobrio, crudamente realistico, che a sua volta rifletteva le condizioni di un paese sul lastrico. Roma città aperta presenta però alcuni aspetti peculiari, che sono alla base della sua importanza: ad esempio, la trama è solo apparentemente priva di sviluppi narrativi e, se spesso si parla delle vicende narrate come di scene di vita quotidiana, si trascurano forse un po’ troppo tutti quegli intrecci che, soprattutto nella prima metà del lungometraggio, incuriosiscono lo spettatore con spunti puramente narrativi. 

Del tipo: perché l’ingegner Manfredi conosce Lauretta, la sorella della sora Pina? E perché si rifiuta a Marina? Che rapporto ha Ingrid con Marina? Cosa combina Marcello? L’intreccio è ben costruito, lasciando sempre qualche spunto di curiosità non soddisfatta allo spettatore (che contribuisce a generare la famosa attesa rosselliniana). Questo affresco corale ben congegnato è però solo il contorno di quello che, almeno a livello programmatico, era il punto cardine del film, ovvero l’evento storico dell’uccisione del presbitero Giuseppe Morosini. In realtà poi, nel film, la figura del don Pietro interpretato da Aldo Fabrizi, riassume sia quella del Morosini che quella di don Pietro Pappagallo, che venne invece ucciso alle fosse ardeatine; la valenza storica, vista la gravità e la veridicità (almeno nella sostanza) di quanto mostrato, uscì da questa operazione di simbolica unione dei martiri, ulteriormente rafforzata. Ma fu un altro fatto, anche questo con un fondamento storico, a segnare per sempre Roma città aperta e tutto il cinema, italiano e non. Ispirata alla morte di Teresa Gullace, l’uccisione della sora Pina per mano dei tedeschi, con la Magnani che cade in mezzo alla strada sotto la raffica di mitra, arriva totalmente inaspettata e scioccante. 

Anche in questo caso, la brutalità della scena è funzionale alla sua credibilità: semplice ed efficace, per niente enfatizzata dalla narrazione o da qualche stratagemma visivo, la morte della povera vedova trova proprio nel suo realismo il maggior impatto emotivo possibile.
Tutti questi elementi, il quadro generale, il prete giustiziato, la vedova uccisa in mezzo alla strada, concordano a rendere la durezza dell’occupazione nazista della capitale. E di fatto concretizzano sullo schermo l’alibi morale necessario al popolo italiano per voltar pagina, e dimenticare il più in fretta possibile il ventennio e le sue scorie. 

Ma viene onestamente da chiedersi: possibile che in un film corale come Roma città aperta, un film classificato come neorealista proprio per la sua credibilità, non vi siano fascisti? L’unico fascista nel film è il questore, mostrato come un viscido servo dei tedeschi; è vero che Marina tradisce l’ingegner Manfredi, ma lo fa per la delusione amorosa e non per l’ideologia politica. Insomma, in Italia, nel 1945, anno di uscita dal film, nessuno voleva sentirsi più fascista, e siccome di fascisti ce n’erano stati eccome, era meglio una sanatoria generale, con gli italiani tutti antifascisti e i tedeschi come unici colpevoli a cui addossare tutte le colpe dello sfacelo lasciato dalla guerra. Ecco, se a livello morale l’operazione di Rossellini in questo senso può essere discutibile (e contribuì, a suo modo, all’atavica incapacità italiana ad assumersi le proprie responsabilità), dal punto di vista cinematografico Roma città aperta è un capolavoro di portata epica, che restituisce nobiltà (morale) al popolo italiano e quindi all’Italia, nello stesso modo in cui l’Eneide dimostrava l’origine ellenica della città eterna o, per restare in campo cinematografico, il genere western glorificava la conquista del selvaggio ovest. 
Nell’Italia martoriata dell’immediato dopoguerra Roma città aperta fu quindi certamente un testo fondamentale per andare avanti e lasciarci alle spalle le laceranti divisioni; forse un po’ meno per crescere.






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